Finita la festa, rispettato il santo

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sanbernardo.jpgSiamo bravissimi a demolire ciò che abbiamo creato in secoli di certosino lavoro di contemplazione, studio e azione, secondo l’ordine di san Bernardo di Chiaravalle. Siamo altrettanto bravi a piangerci addosso, trascinati dall’oblio della nostra identità, dopo per anni aver combattuto e vinto contro il diavolo secondo la tradizione popolare di san Bernardo da Mentone.
L’utilizzo del riferimento a questi santi dei primi secoli del Mille lungi dal farci sentire in “odore di santità”, pone invece una vera riflessione sull’atteggiamento tra cultura e dimensione popolare. Settembre, su molti giornali ed ormai su molti siti internet, è il mese delle analisi sociologiche (nelle quali prima o poi cadiamo tutti) sulle feste tradizionali. Un vero e proprio attacco della cosiddetta intelligenza locale cinge d’assedio le mura di ciò che si è fatto durante l’estate. L’intellettuale di turno si mette a tavolino e con incredibile perizia smonta lo stato dell’arte del quale ovviamente non è partecipe. Ci troviamo di fronte ad un drappello di pensatori che, attraverso una “guerra intelligente”, demolisce quel poco che resta (dobbiamo ammetterlo) della tradizione popolare di molte nostre valli e dei territori del Piemonte. Echi altisonanti provengono da alte vette della cultura a spiegarci il “De profundis” della civiltà contadina e montana. Ovviamente i temi dello spopolamento e della perdita della locuzione locale fanno parte di un lamento funzionale alla retorica del pessimismo. I santi Bernardo ci dimostrano invece a diversi livelli che, o bene o male, è questa la società che dobbiamo affrontare. È naturalmente vero che il mondo lasciato alle spalle è sempre la nostra eterna età dell’oro, ma se dobbiamo fronteggiare eresie culturali, dobbiamo anzitutto ripartire da quei pochi che rimangono a presidiare il territorio. Un bellissima fotografia comparsa nel giugno del 2003 su Il Trentino (rivista della Provincia Autonoma di Trento), a pagina due, rappresenta più di tante parole un vecchio trentino che fuma la pipa con una radiolina Sony nel taschino del panciotto. A fianco della fotografia c’è una descrizione molto calzante che dice tutto su un territorio in inesorabile cambiamento. Si parla appunto di una terra che, senza disfarsi dei suoi abiti tradizionali, mette loro accanto i nuovi mezzi tecnologici, ovvero i nuovi bisogni, i nuovi consumi e i nuovi linguaggi. Ma possiamo andare oltre alle iconografie ad effetto, per fare sottolineare l’opera di coloro che nelle pro- loco del nostro Piemonte organizzano feste patronali, divertimenti per la comunità e che così tengono in piedi una ritualità che si perpetua nel tempo. Il veicolo della trasmissione di questa ritualità è ancora la locuzione e gli echi della lingua piemontese, come delle altre lingue della nostra regione sono ancora nell’aria, più flebili, ma esistenti. Certamente l’intellettuale di turno, proprio nella sfera che ci riguarda maggiormente, quella del linguaggio, può ulteriormente pontificare sui temi del “purismo linguistico-dialettale”. Per decenni molti addetti ai lavori hanno per anni mantenuto (per esempio) la questione delle grafie in una sorta di “surplace”. Chi scrive non è un innamorato “pazzo” per esempio della grafia occitana normalizzata, scrive anzi in mistralenco, ma è altrettanto cosciente della necessità di un segno comune come minino sindacale per una minoranza. Il linguaggio ovviamente non è fatto solamente di espressioni linguistiche, ma investe tutta la comunità umana nei vari aspetti della quotidianità. Ci si pone agli altri spesso attraverso orientamenti scopiazzati dai mezzi di comunicazione, ed è per questo motivo che è importante preservare senza malinconie retroattive (comunque sia) la propria continuità storica riattivandola nel contesto attuale .Non dobbiamo sempre demonizzare ciò che il convento globale passa e non dobbiamo comunque subire tale demonizzazione. San Bernardo da Mentone porta alla catena(anche per noi) il diavolo delle cose che non ci vanno a genio. Dunque il prossimo anno troveremo ancora qualche massacro che insieme ad altre figure banalizzate dalle “alte vette culturali”, infischiandosene del purismo intellettuale, porterà la statua del santo su per la mulattiera con la moto da trial. Saremo a grati a lui, se farà sentire la messa a tutta la borgata con il megafono, e se farà i fuochi d’artificio illuminando il cielo. Lo saranno ancor di più i bambini che, all’uscita dalla funzione troveranno i palloncini da far scoppiare vincendo regali, magari finti telefonini. Certo, era più pittoresco il vaso di terracotta (l’oulo), ma il massaro nell’evoluzione della sua tradizione, a differenza di altri avrà fatto ancora una volta il suo dovere: «finire la festa dando lustro a tutta la comunità e rispettando il santo nell’esorcismo di quella modernità che riesce solamente a che sa guardare avanti».


Roberto Saletta

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