Chi ha paura della lingua piemontese?

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Cercano di confonderla con i dialetti per negarle le stesse possibilità di sviluppo e gli stessi diritti del catalano, del ladino e del tedesco del Südtirol. La realtà è che la nostra rimane una lingua con grandi potenzialità, mentre il basso giornalismo, megafono di una mentalità gretta e provinciale, non produce che chiusura e ignoranza.

Sarebbe troppo facile ironizzare sullo screditato giornalismo italiano, sulle sue faide e sui suoi pruriti. Non lo facciamo, di certo, per non scimmiottarne l’arroganza e la supponenza, ma soprattutto perché ormai sappiamo cosa si nasconde dietro il suo districarsi sornione fra una dichiarazione di un politico e un’occhiata dal buco della serratura. Dietro tanta superficialità e ignoranza ci sono scopi malevoli perseguiti con lucidità. I media sono sostenuti dal potere per spegnere le coscienze e per manipolare consensi e consumi. Le loro “notizie” sono sempre e immancabilmente inattendibili, poiché inframmezzate da falsità, commenti subdoli, messaggi subliminali e mezze verità. Sempre e immancabilmente, oltre la malafede del redattore, affogata fra i pregiudizi e le opinioni indotte, sorvegliata da titolisti, direttori e padroni. Propaganda (ed anche peggio) travestita da informazione: secondo una felice definizione, vere «armi di “distrazione” di massa».

«Dell’abbassamento della falda morale ne sa senz’altro qualcosa la potenza incontenibile dei mass-media, ma essi restano pur sempre una semplice cinghia di trasmissione, sia pure efficacissima, di ben altri circoli superiori. Le idee da mettere in circolazione per attivare il processo di insabbiamento delle coscienze sono elaborate altrove, nel silenzio di riservati cenacoli e centri di pensiero […]: non per nulla la massoneria, tra le numerose sue definizioni, annovera anche quella di “società di pensiero” o, più estesamente, stando alla definizione di quel grande studioso della sovversione che fu Augustin Cochin, di “organo democratico che parla per il popolo”»[1]

L’informazione manipolata indirizza l’opinione pubblica verso il pensiero unico, dando autorevolezza a vere e proprie balle mediatiche e proponendo come modelli situazioni ai limiti della normalità o addirittura patologiche.

Cancellare le identità attraverso la manipolazione delle coscienze
I “centri di pensiero” hanno evidentemente stabilito che le masse debbano percepire come giusta e inevitabile l’aspirazione a una “repubblica mondiale” nella quale le differenze culturali siano eliminate in nome di un presunto pratico e funzionale utilitarismo, le coscienze vengano addormentate e, conseguentemente, le preferenze, i gusti, i pensieri siano livellati verso il basso e, così degradati, facilmente indirizzabili.

I piccoli popoli, con le loro lingue, le loro culture originali e le loro legittime rivendicazioni intralciano questo disegno. Ecco allora il ruolo delle cinghie di trasmissione, messe in funzione anche contro di loro: la tv, la stampa, la scuola periodicamente ci martellano con notizie alterate e mezze verità, fino a farle penetrare inconsciamente nel sentire comune.

Chi rifiuta il pensiero pensato e sceglie di orientarsi verso il pensiero pensante inevitabilmente viene messo in ridicolo, trattato come un matto, un esaltato, affinché l’opinione comune ne prenda le distanze. Questa “opinione comune”, una volta risintonizzata sul pensiero pensato e preconfezionato, non volendo avere nulla a che fare con i “matti”, diviene la prima propalatrice delle falsità elaborate dai circoli superiori, e ciò avviene senza che più se ne renda conto: la sua coscienza si è addormentata. L’ “opinione comune” crederà in buona fede di esprimere opinioni sue; in realtà si rivolta alla propria stessa dignità ed agisce contro i suoi stessi interessi.

Cosa c’entra questo con i piccoli popoli? Avete mai incontrato una madama che, pur di origini piemontesi plurisecolari rifiuta – per la prima volta in mille anni – di esprimersi nella lingua propria della sua famiglia e altezzosamente vanta l’ignoranza dei propri figli in merito alla lingua dei propri genitori? Paradossale, eppure questo tipo esiste: se non l’avete ancora incontrata provate ad affrontare in pubblico certi argomenti e presto la incontrerete.

Informazioni inventate per annientare la nostra cultura
La scuola ha propagandato la storiella del popolo di Parigi che, il 14 luglio 1789, assaltò la Bastiglia e restituì la libertà alle perseguitate vittime dell’assolutismo. Ancora oggi quel “glorioso” avvenimento è celebrato ogni anno con parate e fanfare e strumentalizzato a fini ideologici. In realtà quel giorno poche centinaia di facinorosi liberarono in tutto quattro falsari, un maniaco sessuale e due pazzi pericolosi che, scambiati per “filosofi”, finirono in manicomio non appena chiarito l’equivoco. [2] Ecco come una notizia manipolata si è sovrapposta alla verità e l’ha poco alla volta soppiantata. Gli esempi sono legione, ma qui il richiamo alla Francia “rivoluzionaria” non è casuale. Alla Convenzione l’abbé Grégoire (scomunicato) tuonava: «dentro i suoi “confini naturali” (altra invenzione rivoluzionaria che doveva poi creare cataste di morti) la Nazione aveva il dovere di “annientare” – questo il verbo esatto da lui usato – le lingue locali, i dialetti e, con essi, i modi di vita, in una parola le culture differenti da quelle di Parigi. Tutta la Nazione doveva fondersi in un solo blocco i cui crogiuoli erano la scuola di Stato, unica e obbligatoria per tutti, e l’esercito, luogo dove ogni giovane doveva confluire con la leva di massa». [3]

Ecco chiaramente svelata l’origine del farneticare odierno di giornali e tv sul “dialetto”. Si torna così ai circoli superiori che già tennero la regia della “rivoluzione” dell’89; e poi del cosiddetto “risorgimento”, che oggi si cerca di ripropagandare come monumento di ideali.

L’Italia non rispetta i trattati internazionali
L’Italia non ha ancora desistito dal volere fondere tutto in un unico blocco dentro i suoi “confini naturali”. La realtà che ci vogliono nascondere è che in tutto il mondo il plurilinguismo è una condizione normale, e che il negarlo è innanzitutto immorale. Data l’importanza sociale e culturale delle lingue locali e il rispetto che si deve al diritto delle popolazioni di mantenere e sviluppare la propria cultura, nei Paesi a democrazia avanzata questo diritto è tutelato per legge sulla base di accordi internazionali.
Invece in Italia i media cercano di farlo passare come contro natura. L’Italia rimane spocchiosamente indifferente a tutte le sollecitazioni (Unesco, Nazioni Unite, Consiglio d’Europa) scivolando una volta di più nell’isolamento, nel provincialismo e nell’arretratezza culturale. Ciò che per uno Stato dovrebbe costituire una ricchezza culturale viene sacrificato sull’altare della patria inseguendo i fantasmi di stupide e sorpassate ideologie.

Questi piemontesi non vogliono tacere!
Sulle lingue locali sono bastate un paio di dichiarazioni strumentali per attivare le “cinghie di trasmissione” da tutte le redazioni, da Genova a Palermo; ovviamente  scrivendo tutti la stessa cosa, cioè cercando di far passare per “assurdo”, “anacronistico”, non funzionale e “ridicolo” il volere promuovere le lingue e le identità locali, innanzitutto nella scuola. Come? In maniera subliminale, mescolando falsità e mezze verità, facendo leva su luoghi comuni e paure inconscie.

Pure lo stile è riconoscibile: l’arroganza delle argomentazioni, il martellamento nevrotico (la versione a stampa delle notizie urlate e allarmate dei tiggì che non devono lasciare tempo alla riflessione), l’opinione dei personaggi della tivù, di un paio di tromboni di regime e di qualche figlio di papà, l’ironia di chi si abbassa a dire la sua su robetta da popolino, le solite meschinità, i finti dibattiti, le finte inchieste e le lettere al direttore – con perfino qualche incursione nel cattivo gusto e addirittura nell’esplicito incitamento all’odio.

Il messaggio che deve “passare”, secondo i persuasori occulti che tirano i fili di questa ennesima campagna denigratoria, è: in Italia la lingua unica è e deve essere (per legge e per venerazione costituzionale) solo l’italiano. Un caso quasi unico di imposizione di un monolinguismo virtuale, perché la realtà è quella del paese occidentale dove c’è più varietà linguistica!

La sola finestra aperta è riservata all’inglese, uno “sconosciuto” gabellato come status symbol e chiave “indispensabile” per un non meglio identificato lavoro – che non c’è. Una finestra su quella “repubblica mondiale” di cittadini “liberi” e telecomandabili. Triste ed arretrato paese, che mira a educare un bimbo dell’asilo insegnandogli qualcosa per “trovare lavoro” (e facendo passare un simile ragionamento per normale!)

Le altre lingue, quelle locali, reali, presenti, parlate e testimoni di identità autentiche, quelle che servono ad “essere” – condizione essenziale per “fare”…sono doverosamente da annientare. Anzi, non sono neppure lingue: sono solo “dialetti”. Li parlavano quando morivano di fame e ne siamo tutti affezionati, ma ora abbiamo il carrello pieno e il suv: basta.

Cabine di simulazione di realtà virtuali
Le argomentazioni dei media cavalcano volutamente i luoghi comuni. Devono essere terra-terra perché anche il lettore più affrettato e superficiale possa interiorizzare il pregiudizio, dimenticando di analizzarle criticamente. Una per tutte: i dialetti sono migliaia = impossibile insegnarli a scuola. Peccato per loro che si insegnino nelle scuole di tutta Europa.

«Bisogna ammettere che oggi spesso ci sembra di vivere in una specie di realtà virtuale, che non corrisponde alla verità e all’evidenza delle cose, ma che viene prodotta dalla cabina di simulazione degli opinionisti e degli operatori dei mass media. Si crea cioè un ologramma che non esiste nella realtà delle cose, ma che è frutto della manipolazione delle persone, degli eventi, della storia». [4]

La realtà dei fatti è l’esatto contrario
Ai redattori viene richiesto di propagandare strumentali ovvietà senza la benché minima preparazione di base. Con il solo bagaglio delle proprie opinioni questi sono sempre esposti al rischio brutta-figura – specialmente in Piemonte – ma soltanto di fronte al lettore competente, che comunque non è il destinatario principale della propaganda. Certi di avere un pubblico medio superficiale e incompetente, ai giornali basta una raccolta di slogan avallati da qualche “esperto” di comodo. Una volta chiarito che i “buoni” sono dalla parte della “scienza” e della “ragione”, si cerca di confinare tutti gli altri nell’irrealtà: è così che le lingue locali vengono relegate nel regno delle favole, bollate come superate, anacronistiche, ridicole e assurde. E la cosa viene periodicamente ripetuta su ogni genere di mass media, fino a farla diventare pensiero pensato.

Chiarito che si tratta di un’operazione di propaganda volta a mistificare la realtà e a far passare il bianco per il nero, la controdeduzione corrisponderà all’esatto contrario. Le lingue locali sono vitali, e dovrebbero essere insegnate a scuola anche nei Paesi dove ciò ancora non avviene. Pensare ad uno Stato che possa negare il valore culturale del plurilinguismo per imporre una lingua unica (peraltro in profonda crisi di espressività e di identità e il cui prestigio è in declino) è proprio ridicolo, assurdo, anacronistico. Pensare ad uno Stato che possa negare il diritto alla lingua e alla cultura dei popoli che lo compongono significa evocare i peggiori totalitarismi. Il plurilinguismo, condizione essenziale per una formazione culturale equilibrata (e condizione diffusa e naturale nel mondo intero), parte necessariamente dalla lingua più vicina e più significativa per l’identitificazione di un dato territorio: quella locale.

Questo Stato, del plurilinguismo reale (non virtuale), ha una paura matta, così come delle potenzialità dirompenti di tutte le identità (reali, non virtuali) che lo compongono.

Nelle identità inventate il Piemonte non ci sta
Qui i giornali arrancano nel voler contenere il Piemonte in un’identità virtuale che le va stretta, in un monolinguismo che gli è innaturale, in una chiusura mentale che storicamente non ha mai mostrato di possedere.
Contrariamente ai colleghi delle altre redazioni, di regola i giornalisti delle grandi testate “piemontesi” non sanno articolare una sola frase in lingua locale e sono costretti a prendere il volo prima di inciampare in una semivocale e farsi ridere dietro. Ma, poiché in mancanza di cavalli devono trottare gli asini, chi fra loro conosce almeno un paio di paròle dròle è già l’uomo giusto.
Purtroppo per loro la teoria dei “seimila  dialetti” in Piemonte non è applicabile. Qui, oltre ai dialetti, ci sono le lingue, e ci vogliono competenze “particolari” (che  – per fortuna loro, non nostra – non hanno) per dimostrare che da noi chi parla “anche” un’altra lingua è un essere inferiore (più dei tre quarti dei cittadini).
E dire che da un po’ di tempo in qua anche i giornalisti avevano imparato a scrivere  “lingua piemontese”, ma oggi – guarda il caso – hanno ricominciato col “dialetto”. Eppure sono anni che glielo si va ripetendo che il piemontese è una lingua, supportando questa realtà, se ancora ce ne fosse bisogno, con tutti i dati, le prove e le argomentazioni. Niente. Si vede che di recente hanno ricevuto un’aggiornamento dai “circoli superiori”.

Ci sono i dialetti e ci sono le lingue
Il piemontese è una lingua. Come tutte le lingue anche il piemontese ha i suoi dialetti. Un giornalista ligure scrive che “i dialetti non possono servire per rispondere a domande di algebra o per stilare ricette mediche”, e su questo non piove. Ma col piemontese si può; d’altronde si può anche col friulano, e si può – e si fa – col catalano, col romancio, con il gaelico. Come la mettiamo? Si vuole di nuovo prendere i Piemontesi per stupidi?
Tutte le lingue hanno i loro dialetti. Li ha l’inglese, il cinese, l’arabo, l’italiano… Basta risalire l’Engadina (che parla romancio – una delle quattro lingue ufficiali della Svizzera) per vedere come sulle insegne dei negozi nella stessa parola in pochi chilometri certe e diventino a, e come ciononostante tutti capiscano ugualmente. Sono gli Svizzeri più intelligenti oppure la realtà è che una lingua può essere tale pure in presenza di varianti locali? Anche da noi in pochi chilometri  si può stringere una a, retroflettere la lingua per pronunciare una r, mutare una e in i ma, piaccia o no, in 3 milioni ci capiamo tutti. E questo, a quelli a cui piace mettere in giro la voce che siamo moribondi, dà fastidio.

I giornali pescano nel torbido
Anche a Torino si sono messe in moto le “cinghie di trasmissione”. Un giornalista di qui, dopo avere accampato le solite credenziali che lo legittimano a fare affermazioni autorevoli (cioè fa parte di una giuria), ha proposto anche ai (pochi) lettori di casa nostra la vecchia storia del piemontese che “non esiste” perché ci sono i dialetti. Sai la fantasia… Ma certo, è proprio la fantasia che non deve esserci. Questa reiterazione puntuale e insistente di certe affermazioni, fino a farle diventare “luoghi comuni” fa parte della strategia: guai a pensare, guai alla fantasia! Come diceva il loro maestro J.J. Rousseau «lo stato di riflessione è uno stato contro natura» [5].

Questa sospetta convergenza di articoli che insistono, su tutte le edizioni locali, sulla presunta mancanza di unitarietà del piemontese rivela un obiettivo preciso: togliergli dignità; dignità di “lingua”. Non più la lingua di un popolo, ma dei “dialetti” che servono soltanto a “ricordare il passato perduto”.

Chissà in base a quale principio il carattere distintivo di una “lingua” sarebbe l’assenza di varianti locali? Questo non lo dicono.
Questo principio non c’è: hanno solo di nuovo messo su il banchetto delle tre campanelle e sono lì che ci vogliono fregare. Se tale ipotesi corrispondesse a realtà non dovrebbe esistere neanche l’italiano, e neppure il francese, l’inglese, il tedesco, poiché anche queste lingue hanno i loro dialetti, e spesso assai diversificati.
La presenza di una variante comune è un’opportunità in più per capirci meglio e per difenderci da quelli come loro, che vorrebbero ridurci a ologrammi, frutti di manipolazioni.
Certi giornalisti fingono di non sapere che, comunque, il piemontese comune esiste, che si è formato in modo naturale – senza bisogno di promessi sposi né di attendere Lascia o raddoppia – e che da almeno quattro secoli convive in armonia con i dialetti, le varianti e le altre lingue del Piemonte.

«Il piemontese costituisce una koinè, una comune lingua regionale e non un dialetto municipale come, per esempio, il napoletano o il bolognese. Tale koinè si venne fissando, sulla base del dialetto di Torino, ampliato e arricchito da apporti di altre parlate (…), usata normalmente anche a corte, in epoca sabauda dalla fine del Seicento in poi, e la prima codificazione di una norma scritta risale alla Grammatica Piemontese (1783) del medico Maurizio Pipino». [6]

In più – e ciò è fondamentale – la nostra lingua piemontese non ha mai preteso di sostituirsi ai suoi dialetti o alle altre lingue, ma si è affiancata ad essi naturalmente. Non come l’italiano, che pretenderebbe di soppiantare d’autorità tutto quanto è esistito prima e per secoli. L’invasivo italiano guidato dai giornalisti ha il carattere focoso di chi passa col rosso e poi tenta ancora di aggredirci a colpi di bloster perché non gli abbiamo dato la precedenza; oltretutto confidando nell’impunità.

TGTiè: anche tra gli asini ci sono i purosangue
Due parole sul TG regionale del Piemonte che, come tutti sanno, è sempre stato solo un siparietto folcloristico (forse però non tutti sanno che in Trentino-Sud Tirolo, Valle d’Aosta e a Trieste e Gorizia ci sono i TG regionali in lingua locale).
Nel loro giro di “interviste” a sedicenti “esperti”, politicanti, veline e ragazzi che passano per la strada i nostri giornalisti non potevano non far dire la sua a una collega della RAI la quale, chiamata in causa riguardo alla possibilità di fare un TG in lingua piemontese, snobisticamente si schermisce: «In piemontese conosco giusto qualche modo di dire carino. Come Carla Bruni sa che cappellino si dice “caplin”. Non sarei in grado di condurre in dialetto (sic), eppure sono piemontese purosangue e da ragazza ho imparato un po’ di dialetto (sic) dalle canzoni di Gipo Farassino e Roberto Balocco».
Ma chi l’ha chiamata? Ci sono decine di giovani preparati, che parlano un bellissimo piemontese (ed altri che lo stanno imparando ai nostri corsi) che troverebbero un’ottima occasione professionale nella redazione di un telegiornale piemontese – se soltanto avessimo anche noi, come i Sudtirolesi, una Regione sulla quale poter contare. Non avremmo proprio bisogno di cercare chi fa della propria ignoranza un vezzo.
La nostra “piemontese purosangue” però precisa: «In compenso sto imparando il napoletano: bisogna essere multilingue».
Sipario!

Robert J.M. Novero (Gioventura Piemontèisa, Otóber dël 2009)

1 Epiphanius, Prefazione a Walter Salin, Il canto di Satana – Il potere della musica e la manipolazione subliminale del pensiero, Fede e Cultura, Verona 2006.
2 Vittorio Messori, Pensare la storia – Una lettura cattolica dell’avventura umana, Ed. Paoline, 1992.
3 Vittorio Messori, ibid.
4 Mons. Angelo Amato, Comunicare la fede, in Maria Ausiliatrice, Rivista del Santuario basilica di Maria Ausiliatrice, Torino, Anno XXVIII N. 9.
«Discorso sull’origine dell’ineguaglianza».
6 Cfr. Gianrenzo P. Clivio – Professore ordinario di Linguistica italiana Università di Toronto –  Dichiarazione – Agli Onorevoli Senatori e Deputati della Repubblica Italiana, 15 maggio 1999, pubblicata su Gioventura Piemontèisa, Ann 6 N. 5, Giugn 1999.

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