Nuovo attentato al Piemonte

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Con il pretesto dei “tagli” proposta la sparizione di metà dei nostri Comuni, depositari della nostra identità 

“Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo e che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”.
(Cesare Pavese)

“Buongiorno. Su iniziativa del Sindaco di Milano, tutti i comuni al di sotto dei 30.000 abitanti, da oggi, si chiameranno Santa Margherita Ligure”
(notizia radio da un film italiano)

Ecco ciò che resta di un ex-Comune piemontese scelto a caso, Mocchie, in Valsusa: un elenco abbandonato di ragazzi morti…


Contrariamente a quanto accade da altre parti, in Piemonte i Comuni non sono soltanto espressioni amministrative o entità astratte tracciate su una carta geografica. Le nostre Comunità locali, anche le più piccole, affondano le loro solide radici in epoche remote.

Nei secoli si sono sviluppate o sono decadute, hanno subito assedi, conquiste, saccheggi, distruzioni, deportazioni. I nostri avi hanno combattuto sui campi, sulle torri, sui bastioni, per la loro libertà e per la loro sopravvivenza. Alcuni sono stati piccole potenze militari, capitali, contee, principati, dipendenze ecclesiastiche, repubbliche. Fra quelli che oggi sono “piccoli comuni” qualcuno ancora batteva moneta nel Settecento, godeva di franchigie o di autonomie speciali. Ogni municipalità piemontese ha una grande storia da raccontare; altro che “storia minore”, la differenza sta solo nel fatto che la nostra storia trova ancora sbarrata la porta della scuola.

«A Roma forse non sanno che qui abbiamo una storia profondamente legata alla Francia e che la nostra Regione è diversa da tutte le altre», afferma il presidente della Comunità montana Alpi del Mare Ugo Boccacci. È sacrosanto: non tutte le piccole Comunità sono uguali – con buona pace del Presidente della Regione Campania Stefano Caldoro, che invece di pensare all’immondizia di Napoli,  si è permesso di giudicare ”eccessivo” il numero di Comuni nel Nord. Non è colpa di nessuno, ma ognuno di questi (e i Comuni piemontesi in particolare) ha alle spalle un percorso storico “europeo” assai intenso, unico e peculiare. La civiltà del Piemonte deve tutto alle proprie Comunità locali, anche a quelle piccolissime, alla loro costante voglia di libertà e al loro coraggio nei momenti tristi come nel lavoro di tutti i giorni.

Ora, con un colpo di penna in una Roma assopita nella sua dolce-vita – assicurata anche dal lavoro e dal sacrificio dei Piemontesi – in una notte d’agosto si sta verificando l’ennesima ingerenza nella nostra storia, anche se fin’ora le analisi hanno omesso di dire la verità fino in fondo.

Per “abbassare i costi della politica” in questa eccezionale (si fa per dire) situazione di crisi, si ha l’intenzione eliminare, attraverso fusioni e accorpamenti, i piccoli Comuni. Per ora (ma in Italia, purché non cambi mai niente, può ancora cambiare tutto) verrebbero sacrificati quelli con popolazione inferiore ai mille abitanti.

Consideriamo i costi di un Comune piccolo: di regola il sindaco può arrivare a percepire 120 Euro (lordi) al mese, il vicesindaco il 20%, gli assessori (quattro) il 15%. Il gettone di presenza per i consiglieri (13 al massimo) è di circa 19 Euro (lorde) a seduta – e ci si riunisce tre/quattro volte l’anno. Se, come spesso accade, l’eletto è anche un lavoratore dipendente, questi costi sono dimezzati. Cifre talmente esigue che di solito gli amministratori vi rinunciano o le devolvono in beneficenza. Non sono evidentemente queste monetine l’obiettivo dei tagli…

Dei servizi non se ne potrebbe fare a meno e, inoltre, già in molti Comuni sono gestiti in forma associata. Quali sono allora le spese da tagliare? Poiché, dal punto di vista strettamente elettorale, non sarebbe molto opportuno licenziare tutti i dipendenti, e non potendo per magia fare sparire, insieme a un Comune, anche il suo territorio – da proteggere e mantenere – né le spese per i servizi sociali e i lavori pubblici (salvo deportare tutti nelle città) il riparmio sarebbe talmente irrisorio da rendere il provvedimento inutile. E allora, a parte la demagogia, qual’è la vera ragione? Cui prodest?

A noi è chiarissimo: è un nuovo pretesto per colpire il Piemonte, regione autonoma mancata, territorio non italiano per storia, cultura, lingue, quindi sempre da assimilare a modelli estranei alla sua civiltà.

I numeri parlano da soli: nella Repubblica italiana i Comuni sotto i mille residenti sono 1.945; di questi ben 598 sono in Piemonte, il 31%. Se, come è giusto e probabile, dal provvedimento resteranno escluse le Regioni autonome – i cui Comuni non dipendono dal Ministero – il numero dei Comuni piemontesi soppressi salirebbe al 37% del totale di tutta Italia. Quindi più di un Comune cancellato su tre sarebbe in Piemonte. Sparirebbe di colpo una buona metà dei Comuni piemontesi, il 49,5%!

Il tentativo del nazionalismo italiano di sminuire le autonomie locali piemontesi per mortificarne l’identità emerge ciclicamente nella storia italiana. Ora, con un nuovo pretesto, questa secolare politica volta a sminuire e ad annullare progressivamente la nostra identità, mutilando le nostre comunità, togliendo loro innanzitutto autonomia e rappresentanza, torna a manifestarsi.

E non è la prima volta. Un tentativo di fare sparire i Comuni piccoli mettendoli alla fame e costringendoli a fondersi fra loro tramite referendum risale alla fine degli anni Novanta, ma in Piemonte solo in cinque caddero nella trappola.

La prova che l’attacco ai nostri Comuni ha come unico obiettivo quello di minare le colonne dell’identità piemontese è che la sparizione della maggior parte dei Municipi coincide con il fascismo, massima espressione del nazionalismo italiano. Solo dal 1927 agli anni Trenta, oggetto di fusioni e di aggregazioni, sparirono dalla carta geografica quasi 300 Comuni piemontesi. Solo una trentina si ricostituirono nel dopoguerra, ma la maggior parte morì per abbandono. Roberto Colombero, sindaco di Canosio: «Vengano a vedere gli ex Comuni accorpati che fine hanno fatto… deserto. Fine di tutto. Perché manca il riferimento, perché manca la “casa comunale” che ha un valore che va oltre quello formale».

E noi, come sempre politicamente scorrettissimi, aggiungiamo: contate i morti sulle lapidi. Un’intera generazione sparita, come il loro paese, per “la grandezza della patria”. Di nuovo il Sindaco di Canosio: «Ci hanno preso i giovani da mandare in Russia, hanno preso la gente per far girare le fabbriche della città e arricchirle, ci hanno preso l’energia elettrica, ci stanno prendendo l’acqua potabile, c’hanno tolto le Poste, gli ambulatori, le scuole e adesso … tolgono Comuni che hanno mediamente una persona dipendente, dove i sindaci non prendono un euro e lo fanno perché amano il loro paese». Guarda il caso, la fusione iniziò proprio subito dopo il 1861, quando già una quindicina di Comuni subirono l’accorpamento.

Quando non si è potuto cancellare la nostra storia la si è occultata, ci hanno cambiato il nome e la lingua per farci cambiare identità: molti esempi sono ancora oggi sui cartelli: Caprie, Chianocco, Claviere, Druento, Leini, Mattie, Prali, Sezzadio… (prima erano Chiavrie, Chianoc, Clavières, Druent, Leynì, Matties, Praly, Sezzè…).

Il primo obiettivo di questo provvedimento siamo noi, i Piemontesi, e l’offensiva si abbatte sulle nostre realtà storiche consolidate. Abolire i nostri piccoli Comuni (ex-principati, contee, marchesati eccetera) significa annullare le comunità locali, cancellare centinaia di storie plurisecolari, distruggere dalle fondamenta istituzioni formate dalla Storia prima che dall’amministrazione, fondate su modi di essere e di vivere ai quali volutamente non si vuole dare importanza, anche se si sa che questa importanza è, per noi, vitale. Significherà desertificare intere regioni del nostro Paese (perché, poi, questo provvedimento è propedeutico alla soppressione dei servizi, con tutto ciò che ne consegue), puntare chiaramente a un’inurbazione crescente della popolazione al fine di omologarla in una indistinta massa di cittadini-nuovi-italiani, senza memoria, senza cultura e senza identità. Non è soltanto, come semplicisticamente si è detto in questi giorni, una negazione del diritto allo sviluppo e ai servizi, ma molto, molto di più. Oltretutto – il massimo dell’arroganza – tutto ciò avverrebbe “per decreto”, deciso da fuori, secondo logiche estranee ai Piemontesi.

Il Piemonte non può essere paragonato a una Regione italiana, la sua è un’altra storia. Il numero dei suoi Comuni mostra chiaramente la sua appartenenza all’area “francese” (in Francia i Comuni sono 36.682 – di cui il 90% con meno di duemila abitanti – senza che questo causi il collasso dello Stato), ed è quindi, in percentuale, assai più elevato di quello dei Comuni italiani. I municipî della sola Regione Piemonte, vitale e fiera presenza di un’intensa eredità storica e di una rara densità di avvenimenti (formati talora di poche centinaia, financo decine, di persone) sono 1.206, il 15% di tutti i Comuni di tutta la Repubblica, che sono 8.092.

Questa scelta verrebbe operata contro tutte le belle parole e le roboanti dichiarazioni di principio del governo italiano sul “federalismo” e sarebbe inoltre del tutto contraddittoria (?) con la creazione di “Roma Capitale”, il nuovo ente che ha de facto trasformato la Città eterna nella sesta Regione autonoma. Suonerebbe oltremodo offensiva a una settimana dallo stanziamento di quasi otto miliardi di Euro per il cosiddetto “Piano Sud”.

Non sappiamo se avranno il coraggio di arrivare a tanto. Ora sindaci e consiglieri organizzeranno di certo le solite inutili manifestazioni per richiedere che il governo “ci ripensi”, perché in questo modo “il Paese si ferma”, che tuttavia “l’Italia ce la può fare” e che i Comuni sono “pronti a fare la loro parte” nella consapevolezza che comunque (meno male!) l’Italia rimane “il Paese più bello del mondo” che, nonostante questi nuovi “sacrifici”, saprà dunque trovare “le energie necessarie” e che quindi, alla fine, a va bin parèj. La colpa verrà addossata al governo e a uno o a quell’altro partito che ha tradito le promesse. Insomma: le solite reazioni sdegnate di circostanza, il solito gioco delle parti in un copione già scritto, le solite accuse e controaccuse che non portano da nessuna parte, il solito arrotolarsi sulle parole del politichese. Del Piemonte, manco a dirlo, nemmeno una parola.

Il tutto potrebbe risolversi all’italiana, con l’intervento risolutivo di un collegialmente designato “salvatore della patria” capace di ridefinire, ad esempio, la sparizione degli Enti locali subordinata a un numero di residenti di 674, al di sotto dei 1300 metri s.l.m. e il cui sindaco abbia un cognome che inizi con una lettera dalla A alla F. Sapendo che raggiungerebbero ugualmente l’obiettivo. Diversi Comuni, infatti, vedendosi agitare davanti il babàu dell’estinzione per decreto, potrebbero decidere nei prossimi mesi di fondersi “volontariamente” fino a raggiungere la soglia di sopravvivenza, cadendo a pera nel solito trappolone all’italiana.

Verrebbe da giocare d’anticipo e dire loro: avete voluto la bicicletta? Moltissimi Comuni piemontesi oggi in via di soppressione hanno aderito con entusiasmo alle celebrazioni di regime per i 150 anni della “unità” d’Italia. Com’è buffo il mondo, e come cambiano velocemente le cose: nemmeno sei mesi dopo la data sacra del 17 marzo gli stessi Comuni rischiano di cessare di esistere. La colpa verrà tutta addossata alla “speculazione internazionale” e al governo in carica, che diventeranno così i bersagli di turno di una protesta verso una situazione che si ripete invece regolarmente da decenni (al di là, quindi, dei governi e del colore politico delle singole maggioranze).

E non si vorrà ancora una volta aprire gli occhi sulla realtà: sta venendo al pettine il problema. Per il Piemonte il posto è sempre più stretto e la coperta è sempre più corta. Anche se questa volta la “facessimo franca” in qualche modo, la questione tornerà a riproporsi periodicamente, come da due secoli a questa parte. Come dire? Siamo tutti uguali, ma qualcuno è più uguale degli altri e qualcun altro ancora, invece, è considerato fesso.

La realtà è che la colpa della situazione drammatica che si è venuta a creare è dell’Italia in quanto tale e della malintesa idea di italianità del Piemonte, non del Berlusconi di turno, se non in termini contingenti e transeunti. Se, come al solito, saranno i Piemontesi a dover fare da capro espiatorio, ad essere messi nuovamente nella condizione di dovere una volta di più rinunciare a dignità, identità e storia e fare “un passo indietro” per il bene comune – anche se non serve a niente -, se saranno accusati di essere, con le loro migliaia di Comuni, la causa del dissesto dello Stato, sarà per colpa della mancanza di una classe dirigente piemontese disintossicata dalla retorica e dalla propaganda italianiste, capace finalmente di prendere atto che in Italia il Piemonte non è a casa sua. Altrimenti la lingua piemontese continuerà ad essere lasciata fuori dalla porta delle minoranze linguistiche e si continuerà ad affidare a Roma l’autorità di decidere dell’avvenire della nostra cultura e della nostra civiltà.

Una classe dirigente che abbia il coraggio di rivoltarsi al fatto che, mentre nelle Regioni autonome i Comuni dipendono dalla Regione, nel Piemonte del 2011 rendono ancora conto al Ministero degli Interni, esattamente come nel Ventennio. Una classe dirigente che, invece di sbracciarsi nel voler sembrare i primi della classe per sopprimere le Provincie più piccole, punti ad abolire le prefetture (che, comunque la si pensi, sono un organo nominato e non scelto democraticamente dai cittadini).

I fatti di questi giorni (che sono soltanto l’antipasto di ciò che arriverà nei prossimi mesi…) devono farci riflettere sui nostri errori del passato. Aver svenduto la nostra identità, la nostra libertà e la nostra sovranità è stata una catastrofe, altro che celebrazioni! Il Piemonte di oggi dovrà prendere le distanze nel modo più fermo dai protagonisti del cosiddetto “risorgimento”, disconoscendone l’operato: not in our name!

(15.8.2011)

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