Un interessantissimo e inaspettato articolo di Giorgio Bocca sul “Venerdì di Repubblica” del 29 luglio 2011. Si intitola “Il rischio di scivolare da una lingua noiosa al qualunquismo” e sottolinea il fatto come le lingue naturali (che lui chiama “dialetti, ovviamente) fossero molto più vive e vere dell’italiano artificiale, anticamera del qualunquismo. Notevole davvero, una bella sorpresa da parte del giornalista novantenne. Eccolo riportato qui sotto (le frasi in lingua piemontese le ho riscritte io in grafia normalizzata, perché come erano riportate da Repubblica c’era da mettersi le mani nei capelli)
(Ripreso dal profilo Contro lo spot RAI sui “dialetti”: vergogna, sono lingue vive!)
Fatti Nostri di Giorgio Bocca, da “Il Venerdì di Repubblica” del 29 marzo 2011
Il rischio di scivolare da una lingua noiosa al qualunquismo
«Rispetto alla monotonia e all’opacità plastica del politichese e della lingua allo stato attuale di imbalsamazione, la lingua dei dialetti, nativa e creativa, era ricca di innovazioni. Si nutriva, per cominciare, dei nomignoli, di ogni persona o cosa non si accontentava di un nome ufficiale, trovava un nome evocativo, caricaturale, che ne dipingeva a gradi esatti il carattere. Uno di pelle scura e di modi autoritari diventava ël negher, ogni diversità fisica era ricordata e cucinata in varie forme: ël dritt, ël sòpp, ël quattreuj per dire il miope con gli occhiali. C’era del prefabbricato, dell’usato, in tutti i dialetti come in tutte le forme di comunicazione, ma non si perdeva mai completamente il vigore della vita, della riconoscibilità. Di uno che era basso di statura si diceva “va a spassé con ël cul”.
Quello che colpisce in un italiano che oggi voglia descrivere il prossimo è che dalla sua bocca esce un linguaggio chiaro, lucido, ma freddo, noioso, una litania mandata a memoria che a ogni interruzione viene ripresa dal punto di partenza. Sarà effetto della vecchiaia, della memoria lunga, ma spesso mi sorprendo a parlare in piemontese, a usare detti e motti dialettali anche più difficili da pronunciare che in italiano, vedi “doi povron bagnà ‘nt l’euli” (due peperoni intinti nell’olio) o “dëstortóite” per dire sciogliti, sii sincero. Anche al tempo dei dialetti ci fu differenza tra quello usato dal popolo e quello dalla classe dirigente, ma in pratica il dialetto era una lingua popolare comprensibile a tutti, era la lingua con cui potevi rivolgerti a una guida alpina come a un capufficio o a un ufficiale, era la lingua con cui Vittorio Emanuele II si rivolgeva ai soldati piemontesi nella battaglia di San Martino: “Fieuj, domse da fé përchè se nò San Martin (tradizionalmente il giorno del trasloco dei mezzadri) an lo fan fé a noi”.
Questo discorso sul dialetto e sulla lingua non è una questione astratta, ma riguarda un problema gravissimo per la civiltà di un Paese, riguarda la possibilità di avere una lingua veramente espressiva e compresa da tutti. I telegiornali e le altre informazioni politiche sono praticamente inascoltabili: una rifrittura di parole che non significano più niente, di luoghi comuni verniciati e inespressivi. Il discorso politico degli italiani, il modo italiano di occuparsi di politica con questa lingua asfittica è praticamente impossibile. Nella Camera dei deputati e negli uffici della politica si parla il “politichese”, un linguaggio burocratico noioso, senza colore e senza sapore.
Un deputato vale l’altro, un partito vale l’altro: tutti ripetono delle formule stantie, solo raramente qualche uomo politico di spicco e di carattere riesce a ritrovare una comunicazione persuasiva o comunque interessante. La noia è la madre del qualunquismo».