- «La prima tutela di una lingua è il coraggio di nominarla come tale», dice Gustavo Buratti, scrittore in piemontese e segretario per l’Italia dell’Associazione internazionale per la difesa delle lingue e culture minacciate.
Ma è esattamente questo riconoscimento che il governo regionale non sembra disposto a pronunciare dopo aver espresso tre anni fa, dai banchi dell’opposizione, tesi opposte quando Palazzo Lascaris era governato dal Centrodestra. Al di là dei conflitti ira gli schieramenti, ci sono ancora più pressanti le “ragioni” delle culture di appartenenza contro la semplice recensione dei trend contemporanei, dei processi di globalizzazione: fenomeni che anziché spingere ad una maggiore opera di tutela della propria storia e identità sembrano convogliare la politica verso un’accettazione acritica del presente. Gustavo Buratti cita Simone Weil («Chi è sradicato, sradica») e l’ultimo messaggio di Pier Paolo Pasolini in cui lo scrittore affermava la necessità di sostenere tutte le forme alterne e subalterne di cultura: quelle delle etnie proprie e altrui.
Il nuovo disegno di legge regionale tende invece a minimizzare l’apporto identitario e anziché citare il piemontese come “lingua” parla di un generico “patrimonio linguistico”. Per tutta risposta Gioventura Piemonteìsa ha già avviato la raccolta di firme a sostegno di una legge che riconosca tutte le lingue storiche presenti in Piemonte, dal walser al provenzale. Sul tavolo della discussione tornano anche vecchie obiezioni: il piemontese è davvero una lingua? Deve essere diffuso anche a livello istituzionale e quindi scolastico. Ne parliamo con Gustavo Buratti.
La battaglia per il riconoscimento del piemontese sembrava vinta ampiamente negli anni ’90. Ora tornano in auge distinguo e perplessità che sembrano voler mostrare una volta di più come il riconoscimento di una lingua sia un fatto politico. Cosa ne pensa?
«È esattamente così. La prima tutela di una lingua è il coraggio di nominarla come tale. Prendiamo per esempio il corso, riconosciuto come lingua dalla Repubblica Francese, è strutturalmente la più italiana delle parlate. “Imparemu parlar u corso” si dice. Tutti i cosiddetti “dialetti” italiani sono forme che derivano dal latino, quindi la discriminante non può essere questa. Quel che scandalizza è che, mentre in tutta l’Europa è la Sinistra che conduce la battaglia per il recupero dei patrimoni e delle diversità, in Italia gli uomini di Sinistra hanno paura di parlare di questo e, nel nord, lasciano che il tema sia in mano alla Lega, la quale oltretutto è incoerente perché quando era al Governo non ha affrontato la questione. Altre lingue regionali, come il sardo e il friulano, che erano considerati dialetti, grazie alla volontà locale di sardi e friulani, sono state tutelate e sono oggi inserite nella legge 482 (sulle minoranze linguistiche n.d.r.). Dunque perché il sardo e il friulano possono avere questa considerazione e il piemontese no? »
La differenza fra lingua e dialetto non può essere discriminante, sia pure considerando che il piemontese ha sintassi e caratteri diver si dall’italiano a cominciare dal numero di lettere (25 e quindi 4 in più dell’italiano e 7 vocali)?
«Scientificamente la differenza non esiste. Tutte le parlate hanno una loro dignità. Fare una classifica ira lingue e culture è quanto di più razzistico ci sia: È come dire che una cultura, una lingua, vale di più di un’altra. Chi lo dice? Chi dice che la lingua dei pigmei vale di più di quella di Shakespeare».
II ruolo della Sinistra in questo contesto è davvero al lumicino allora?
«Non si capisce perché la Sinistra non abbia saputo rivendicare l’eredità giacente di Pasolini: Pasolini si batteva per il valore della diversità, come una specie di contravveleno all’alienazione, al consumismo. Le sue ultime parole, lette al Partito Radicale il giorno dopo l’uccisione dello scrittore, erano dedicate alla lotta contro le forme alterne e subalterne di cultura: per il piemontese, per il napoletano. Ma naturalmente occorre che ci sia una presa di coscienza locale. La cosa più corretta non è quindi quella di fare un elenco delle lingue che meritano e quelle che non meritano, ma lasciare alle Regioni le competenze di tutelare il proprio patrimonio linguistico. Se la Regione Sicilia non valorizza il siciliano vorrà dire che toccherà ai siciliani condurre la battaglia».
Il Centrosinistra mette però sul piatto della bilancia politica anche il rischio di una secessione…
«Balle. La Svizzera ha quattro lingue e due religioni, eppure è unita molto di più di quanto lo sia l’Italia. Occorre rendersi contò ché c’è un patrimonio della Sinistra. Qualora un giorno la classe dominata dovesse presentare un conto delle espropriazioni subite, allora non ci sarà soltanto l’espropriazione denunciata da Marx del plusvalore, o quello che ì lavoratori hanno perso in salute e in dignità, ma addirittura la perdita della propria cultura: la propria lingua diventata minus valore, inventando il “dialetto” che vale meno».
Il valore della differenza non è sancito solo dal patrimonio linguistico…
«Certo che no. L’Italia ha un patrimonio unico, un territorio dove città e paesaggio cambiario continuamente sotto i nostri occhi; le sue città sono piccole capitali: Torino, Milano, Venezia, Modena, Mantova, Napoli… Sono belle anche per questa loro individualità. E allora perché non rendersi conto che oltre ad un’eredità di palazzi, di opere, di architettura, c’è un patrimonio di voci, di musicalità, di lingue. L’italiano è bellissimo ma perché non aggiungerci la propria parlata i cinesi non dimenticano il cinese imparando l’inglese».
L’Italia tuttavia aveva firmato nel `92 la Carta delle lingue regionali promossa dal Consiglio europeo. Ma non è mai stata ratificata dal Parlamento. Perché?
«Intanto c’era stata nell’81 una “Raccomandazione” del Consiglio d’europa in cui si sottolineava l’importanza del pluralismo linguistico tra le 51 lingue degne di tutela, e tra queste d piemontese è la numero 39″. Il trattato del ‘92 fu una conseguenza. Il Governo italiano lo ha fumato nel giugno del 2000, ma poi la legge è stata ratificata malamente dalla Camera (per togliersi il fastidio hanno citato in quell’ambito la legge 482 che riconosce undici minoranze). Per fortuna quella legge non è mai stata vagliata dal Senato per cui è decaduta».
La stessa Costituzione italiana presuppone la tutela delle minoranze linguistiche. Su questa definizione si sono fatte però delle distinzioni. Cosa definisce una “minoranza linguistica”?
«Ci sono due strade: o io ho una mentalità antidemocratica per cui vado davanti al “Sovrano” o davanti al Governo e chiedo una concessione di tutela; oppure c’è la strada che nasce dal “basso”. E chi meglio di coloro che hanno una “lingua tagliata” avverte il diritto di chiedere?! Tocca quindi alla Regione, innanzitutto, dire che esiste una lingua da proteggere. La minoranza non si può che definire nei confronti della maggioranza, quindi della lingua italiana. Purtroppo però oggi il piemontese è minoranza anche rispetto alla lingua parlata nella regione. Se non si prendono provvedimenti urgenti, nel giro di due generazioni non ci sarà più nessuno che parlerà il piemontese. Così come è successo in Francia, in Provenza. Ci si accorge dell’importanza dei dialetti quando sono morti. Adesso si dice: “Com’era bello il provenzale”… Certo, ma adesso è morto. Resta solo qualcuno che vuole reimpararlo».
Contemporaneamente si lamenta un vuoto legislativo a livello nazionale per la tutela del piemontese e i proponenti della nuova legge regionale dicono che l’inserimento del termine “lingua” nella normativa rischia di incorrere in una contestazione di illegittimità. È così?
«Se la legge nazionale 482 ha dimenticato il piemontese, l’unica cosa è fare una nuova legge che ne preveda la tutela. È priva di fondamento, come ho già scritto su una rivista, l’asserzione secondo la quale, con la legge regionale, si pretende di equiparare il piemontese alle lingue tutelate dalla 482 perché sì sa bene che le competenze nazionali sono maggiori di quelle che possiede la Regione. Viceversa si chiede che la lingua piemontese venga nominata e che la Regione la tuteli ne limiti delle sue competenze Il rischio paventato di illegittimità non esiste perché proprio la Corte Costituzionale, con la sentenza n.375 de13-25 luglio 1995 ha riconosciuto che le varie articolazioni della Repubblica sono chiamate all’attuazione dei principici fondamentale sancito dall’ articolo 6 della Costituzione”. Il che significa che ognuno di noi cittadini, concretamente, è chiamato a concorrere alla attuazione dello spirito della norma».
Marco Conti, da La provincia di Biella del 23.6.2007