Sla grafìa piemontèisa

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  • Sono apparse ultimamente opere narrative, lessicografiche e teatrali in lingua piemontese con una compitazione che non è conforme a quella storica.

Avevamo sempre avuto pubblicazioni con grafie scorrette, dovute alla mancata conoscenza della grammatica e della grafia storica del piemontese.
Il fenomeno cui facciamo qui allusione è invece molto più recente e concepito ad arte. Paradossalmente, il risultato di questa ambiziosa riforma riconduce chi l’accetta a scrivere più o meno come lo hanno sempre fatto, con molto maggior merito, gli inesperti.
Le opere cui facciamo allusione sono edite anche in formati di prestigio e sono frutto di un notevole impegno filologico e creativo.
Intralcia non poco la lettura il fatto che queste opere siano state redatte in una grafia che, generosamente, vorremmo definire come “fonetica”.
Purtroppo le frequenti varianti apofoniche e apografiche tra parole del contado e della koiné costringono anche il lettore più smaliziato a continue riletture per sincerarsi dell’ortoepia auspicata dagli autori.
Se lo scopo di questa nuova grafia era quello di agevolare la lettura, direi che il risultato è stato perlomeno controproducente.
Sorprende soprattutto la mancanza di coerenza nell’escogitazione di corrispondenze grafiche tra i vari fonemi via via rappresentati.
Exempli gratia, se in questa grafia riformata si scrive “ü” per indicare la “u” alla francese, si dovrebbe poi in stretta coerenza scrivere “ö” per indicare la “o” lombarda, e non “eu”, alla francese, come invece è il caso. Insomma, se si adotta una scala di corrispondenze un minimo di logica esige che si continui poi per quella via.
Insomma, per condurre questa riforma fino in fondo la revisione dovrebbe estendersi a molti altri suoni, con l’ideazione di ulteriori soluzioni grafiche o di altri segni diacritici: in realtà siamo qui ben lungi dall’aver esaurito i fonemi della lingua piemontese.
Qual era dunque lo scopo vero di questa tentata riforma?
Dal numero e dalla natura delle modifiche si evince che non si è veramente voluto creare un sistema grafico esaustivo, ma soltanto prendere in prestito, così alla buona alcune convenzioni dall’italiano, altre dal tedesco o dal francese, e sostituire con quest’ultime le tradizionali soluzioni grafiche per agevolare la lettura a chi non ha dimestichezza con la grafia piemontese storica, consolidata già fin dai tempi di Ignazio Isler, nel Settecento.

Come si possono rappresentare i suoni di una lingua con le convenzioni grafiche di un’altra?

È perlomeno strano che in questa compitazione fonetica si dia per scontata l’ignoranza della grafia piemontese tradizionale e, al contempo, la conoscenza di convenzioni grafiche straniere.
A lume di ragione direi che per un piemontese è di gran lunga più probabile la conoscenza della prima e molto meno quella delle ultime. E se tanto l’una, quanto le altre, sono ignote, non vedo come la sostituzione di una con le altre possa arrecare anche il minimo vantaggio a chicchessia.
Già però fin dalle prime battute il presupposto dei “fonetisti” zoppica: come rappresentare compiutamente i suoni di una lingua con le convenzioni grafiche di un’altra?
È come se si volesse scrivere l’inglese con lettere o convenzioni grafiche desunte dall’italiano, già sapendo che la gamma fonetica anglosassone annovera suoni che non rientrano in quella italiana.
E se già non si stentasse abbastanza a raccapezzarsi, appare ancora più fuorviante la mancata indicazione degli accenti tonici anche là dove, normalmente, nella grafia storica, essi sono indicati (es.: “albeis” invece della compitazione storica “albèis”).
Il presupposto per queste omissioni – se abbiamo intuito bene – è che sui dittonghi dolci o discendenti l’accento tonico non dovrebbe essere indicato perché, nella maggioranza dei casi, i dittonghi in piemontese sono discendenti e quindi l’accento dovrebbe essere indicato solo sui dittonghi ascendenti.
Ben venga l’economia: ma quelli che non sono piemontesi, o che pur essendolo non hanno la minima idea di dove mai possa cadere l’accento tonico, come fanno a stabilirlo? Debbono, di volta in volta, fermarsi a contare le sillabe per chiamare in causa una delle tante regole “automatiche” sull’accentazione della lingua subalpina?
Mi si corregga se ho inteso male: non era lo scopo primario di tutta questa “riforma” quello di semplificare la vita al prossimo?
Pare proprio di no.
Giunti a questo punto, mi pare indispensabile fare alcune riflessioni su queste sedicenti semplificazioni.

Innanzi tutto chi legge il piemontese è, nella stragrande maggioranza dei casi, piemontofono.
La compitazione non gli è indispensabile per pronunciare correttamente le parole, ma solo per rammemorarle. La grafia, insomma, è un rinvio: è la memoria che gli fornirà la pronuncia, con le sfumature e le coloriture locali.
Se, invece, chi legge non è piemontofono, occorre (come per tutte le lingue) un informatore linguistico. In sua assenza, mi pare assai più ragionevole fornire all’ignaro lettore una compitazione che gli consenta di adire alle opere filologiche che guarda caso si conformano alla compitazione storica (così come tutti i classici della letteratura piemontese: il dizionario di Vittorio di Sant’Albino, del 1859, è tutto in grafia storica e ciò ben ottant’anni prima dell’accusatissima grafia PacòtViglongo, che non fu per nulla una rivoluzione, ma una conferma e una messa a punto della compitazione tradizionale).
Una compitazione diversa da quella classica, per coloro che non sanno convertire la scrittura fonetica in quella storica, potrebbe comportare difficoltà di lettura e di consultazione. E non è questo l’unico inconveniente.

Consideriamo la natura degli alfabeti e delle corrispondenze tra grafemi e fonemi.
La scrittura è una sequenza di simboli grafici, e ciò vale tanto per l’inglese, dove la corrispondenza tra scrittura e resa fonetica è tra le più aleatorie, quanto per l’italiano, dove invece la corrispondenza è tra le più pacifiche nel novero delle lingue europee.
Ciò nonostante, che si scriva foneticamente, o storicamente, la memoria (chiamiamola pure “preconoscenza”) deve sempre intervenire.
Per intenderci, l’apparato fonetico umano è capace, grosso modo, di 260 suoni. Nessuna tra le 5.800 lingue del pianeta terra fa uso di tutte queste possibilità fonetiche. Le lingue utilizzano ogni dove tra una quarantina di suoni (l’awaiano, formato quasi interamente da vocali) e 120130 suoni (l’inglese, lo svedese e il russo sono tra le lingue più ricche di suoni intervocalici e interconsonantici; come gamma fonetica il francese e il piemontese si avvicinano di più a quest’ultime, mentre l’italiano è ricco di suoni vocalici reiterati, ma povero di accezioni fonetiche e conta una settantina di suoni, più o meno come il croato e poco meno che il neoellenico. Il portoghese ha più suoni dello spagnolo, ma uno stesso numero di lettere per compitarlo).
Nonostante il numero dei fonemi, di gran lunga superiore alle lettere, queste lingue si servono però poi di sole 2126 lettere e di un certo numero di convenzioni grafiche per rappresentare tutti i loro suoni (le lettere “chi”, ad esempio, darebbero luogo alle rese fonetiche più disparate in italiano, in francese, in spagnolo, in tedesco e in inglese).
In realtà è impossibile rendere compiutamente tutti i suoni di una lingua con la sola scrittura tradizionale (che poi si usi l’alfabeto latino, cirillico, greco, celtico, ebraico o gotico non fa proprio nessuna differenza: il cirillico sfiora le 40 lettere e non è più vicino a rappresentare integralmente il russo di quanto quello latino lo sia a rappresentare il polacco o lo sloveno): a meno che non si voglia ricorrere alle 260 lettere e segni diacritici dell’IPA (International Phonetic Alphabet), rendendo poi davvero impossibile la lettura ai non specialisti.
Non metto in dubbio che un linguista, a tavolino, potrebbe razionalizzare la grafia di qualsiasi lingua esistente, semplificando la vita agli scolaretti e a coloro che, in età adulta, imparano a leggere.
Ma la razionalizzerebbe per una determinata convenzione grafica nazionale, non per tutte e, comunque, anche se si optasse per una scrittura fonetica, alla fine non saremmo più vicini a rappresentare compiutamente tutti i suoni di una lingua di quanto lo eravamo con una grafia tradizionale.
Infine, se la grafia in questione è di antica data (come è il caso di tutte le lingue europee) saremmo ben sconcertati di trovarci di fronte a frasi compitate foneticamente. Facciamo un esempio: “Kia kiesto kozì poko per kuèsto kaffè?”.
Nel caso che non solo si stenti a capire, ma addirittura non si riconosca la lingua, ebbene, è italiano e la frase, storicamente, si scrive così: “Chi ha chiesto così poco per questo caffé?”.
Immaginiamoci leggere un giornale o un romanzo scritti interamente in questo modo: all’ingrata fatica di dover “tradurre” mentalmente tutte quelle lettere si assommerebbe lo sconvolgimento delle nostre menti, abituate ad una scorrevole e familiare corrispondenza tra lettere e suoni.
Il cambiamento non sarebbe alienante solo per i locutori di una lingua, ma anche per gli stranieri che l’hanno appresa con la sua grafia tradizionale.
Non parliamo poi della delusione di chi pensava di aver imparato a leggere e a scrivere una determinata lingua e viene a scoprire che, sì, gli hanno insegnato a decodificarla foneticamente, ma quei segni non sono per nulla quelli consacrati dalla tradizione letteraria, che gli rimane preclusa o, comunque, di ben arduo accesso.
Se era un regalo che volevano fargli, che regalo gli hanno fatto insegnandogli a leggere in un’arbitraria grafia fonetica?
La verità, più volte corroborata dall’esperienza, è che le grafie fonetiche non semplificano mai il compito dei lettori, sia di quelli novizi che di quelli sperimentati.
Ed è qui il guaio, perché oltre a non facilitare le cose, queste riforme fonetiche ghettizzano le lingue riformate in quanto le privano del legame con le opere lessicografiche e con la letteratura classica, oltre che con le abitudini dei lettori nazionali e stranieri, isolando ancora di più coloro che si voleva aiutare riformandone la scrittura.

Per chiarire meglio questo punto ci sia concesso di fare una considerazione sulla natura delle lingue.
Le lingue non sono strutture sincroniche e razionali, ma storiche e idiomatiche. La loro compitazione non è scientifica, ma tradizionale.
Una lingua è come un’antica città: le vie non sono sempre diritte e i vecchi edifici spesso presentano planimetrie asimmetriche; strangolano le arterie e si piazzano di sghimbescio sulle piazze. Non per questo però demoliremmo Venezia o Firenze per far posto a vie squadrate e a grattacieli dalle allineature ineccepibili e anonime.
Così pure non scarteremmo le strutture storiche di una lingua per far posto a modi “razionali” di scriverla.
Certo, tutti vorremmo imparare o insegnare una lingua scientificamente fabbricata, come l’esperanto. Ma c’è un serio problema con tutti gli esperanti (ne sono stati inventati una dozzina negli ultimi due secoli ed hanno fatto tutti la stessa fine): le lingue costruite a tavolino non hanno storia, mentre le lingue secolari raggiungono incisività e univocità non per parole ed espressioni artificiali, ma per storicità ed idiomaticità.
Non c’è legame tra una lingua creata a tavolino e la storia di un popolo. Le lingue senza storia non sono lingue, ma codici. Le parole potrebbero essere sostituite da numeri e il risultato non cambierebbe: si trasmettono dati, non emozioni.
Una parola storica non è solo campo semantico, ma anche stratificazione etimologica, non è solo significato attuale, ma cumulo di significati nel tempo. All’attualità e alla referenzialità si assommano storia e coscienza.
La grafia storica fa parte integrante di questa storia e di questa coscienza.
Le incongruenze grafiche, morfologiche e sintattiche sono il prezzo che si deve pagare per conservare intatto questo spessore di civiltà.

Se ciò già non militasse sufficientemente a favore delle grafie storiche, bisogna aggiungere a tutto questo le dovute considerazioni sul caso particolarissimo delle lingue regionali.
Il piemontese è una lingua regionale.
Non lo impariamo per fare affari in borsa o per comunicare dati scientifici a colleghi oltreoceano, ma per amore di storia e di civiltà.
Per amore della nostra storia e della nostra civiltà.
Se buttiamo alle ortiche la sua grafia storica, eliminiamo la principale ragione per conservare questa lingua poetica e identitaria.
Tanto per ribadire questo importantissimo concetto, prendiamo il caso di un’altra lingua difficile da compitare (e tutt’altro che regionale): il francese.
La grafia francese di oggi potrebbe essere modificata a fondo (beninteso, da linguisti un po’ più coerenti di quelli che ci hanno propinato la grafia fonetica piemontese), per renderne più facile l’apprendimento e la lettura ai milioni di stranieri che risiedono in Francia e nei 34 Paesi della francofonia, e agli stranieri che dovunque la studiano; ma ciò facendo si trancerebbe di netto il cordone ombelicale che collega la grafia odierna con i nove secoli di storia linguistica e letteraria del popolo francese.
Per questo motivo non si propone una grafia “fonetica” del francese. Si continua invece a scriverlo con tutti i suoi accenti acuti, gravi e circonflessi, con i suoi trémas, con i suoi suoni mouillés e nasali, con i suoi dittonghi e trittonghi di difficile assimilazione.
E per lo stesso motivo non si abolisce l’alfabeto cirillico per il russo, quello greco per il neoellenico o quello ebraico per la lingua d’Israele, né si eliminano diecine e diecine di lettere morte dalla compitazione del polacco.
A maggior ragione non si deve privare il piemontese della sua grafia storica, proprio perché mentre il francese, il russo, il greco, l’ebraico e il polacco servono a ben di più che a leggere poesia o a fornire parametri identitari ai loro rispettivi locutori, il piemontese svolge quasi oramai più esclusivamente queste ultime due funzioni.
Beninteso, possiamo servirci del piemontese per redigere scritti di critica letteraria, articoli giornalistici, costituzioni e codici, per lettere private o perfino per trattati di matematica: la lingua piemontese ha tutti gli attributi morfolessicali per farlo in modo egregio, come qualsiasi altra lingua. Bene farlo, bene continuare a farlo, ma non illudiamoci che, facendolo, il piemontese diventi altro da quello che storicamente esso è. Il suo sacrosanto compito è quello di fornire un’identità (e non solo ai piemontesi) e un legame con il suo corpus letterario. È una lingua ancestrale. Tra non molto l’italiano e molte altre lingue nazionali diventeranno, de facto, esse pure lingue ancestrali. Forse i locutori di lingue nazionali, in un futuro non molto lontano, avranno qualcosa da imparare da chi sa tenere in vita una lingua ancestrale, come i piemontesi, gli inouit, gli amerindiani, i francocanadesi, e tanti altri.

Vi è infine un problema di natura graficofonetica.
Chi in Italia vedendo la lettera “e” potrebbe mai esitare anche un istante sul suo valore fonetico? Una “E” è una “E” direbbero tutti e la discussione finirebbe lì.
Per incominciare una “e” potrebbe essere la “e” di “elica” oppure la “e” di “erba” e già qui ci avvediamo che la stessa lettera non rappresenta un solo suono, ma bensì due, assai diversi, tant’è che se uno straniero che impara l’italiano pronunciasse “elica” con la “e” di “erba”, o viceversa, ci verrebbe probabilmente fatto di sorridere. Ci accorgeremmo dell’errore, ma capiremmo. È uno scarto fonetico.
In altri casi, come la diversa pronuncia della “e” congiunzione e della “è” del verbo essere, la mancata distinzione potrebbe, tanto graficamente, quanto foneticamente, indurre a fraintesi.
Potremmo non capire. È uno scarto fonematico.
Se poi mostrassimo la stessa lettera ad un francese e ad un inglese ne otterremo suoni completamente diversi, perché una “e” non accentata in francese corrisponde a un suono pressoché muto, mentre in inglese una “e” isolata è l’equivalente della lettera “i” in italiano.
Trasferiamo ora tutte queste considerazioni alla compitazione del piemontese.
Quando noi decidiamo di scrivere il piemontese con una grafia “fonetica”, in cui le lettere dovrebbero “automaticamente” rimandare ai suoni del piemontese, questa grafia è “fonetica” per chi?
Per gli italiani?
Magro affare, visto che la stragrande maggioranza degli italiani (incluso un buon numero di piemontesi) non sa che farsene del nostro “dialetto”.
E se è uno straniero che legge, a quali norme “fonetiche” si deve attenere? A quelle della sua lingua o a quelle dell’italiano?
In realtà ci vorrebbero tante grafie fonetiche del piemontese quante sono le lingue di coloro cui ci si rivolge.
Assolutamente improponibile, anche se ve ne fosse la minima utilità.
E allora perché privare una lingua della sua autonomia e della sua dignità storica per renderla intelleggibile solo a chi passa per l’italiano?

Giunti a questo punto, facciamoci una domanda, non più linguistica, ma di mero buon senso.
Non avevamo combattuto, di comune accordo, tante battaglie per affrancare del tutto il piemontese dall’italiano, tanto morfologicamente, quanto lessicalmente?
Quanta fatica hanno durato Pacòt, Alfredino, Olivero e i giovani della bela scòla dij Brandé a reperire quel lessico di cui ora siamo tanto orgogliosi, svezzando il piemontese dall’asfittica dipendenza dell’italiano che lo stava trasformando in un creolo del tutto indecoroso? Non abbiamo imparato a memoria le lezioni di Frusta, di Autelli, di Brero, di Pich, di Cosio, di Burat, della Dorato, per rafforzare in noi quel meraviglioso lessico che essi ci hanno esemplificato in prosa e in poesia?
Perché proprio ora, a rigor di logica, nel mezzo di una lunga e ardua campagna di revitalizzazione della lingua piemontese, la priveremmo di quello che di più prezioso e di più vitale essa ha, la sua grafia storica?
Per agevolarne la lettura? O la scrittura?
Ma chi elegge, in età adulta, di imparare (o di reimparare) una lingua regionale, ha già dimostrato di appartenere ad una schiera eletta: non ha bisogno di tutele culturali.
È chiaro che il presupposto scontato per questa grafia “fonetica” è che chiunque legga o scriva un dialetto è un sottosviluppato culturale (è lo stesso errore compiuto da PierPaolo Pasolini nella prefazione alla sua antologia della poesia popolare, concetto poi da lui ripreso in Passione e ideologia e sostanzialmente dettato dal vecchio PCI, che voleva a tutti i costi eliminare le lingue regionali, giudicate discriminanti per l’evoluzione della classe proletaria, anche se qui, nell’attuale riforma fonetica, queste considerazioni non c’entrano per nulla. Anzi, il piemontese non è affatto necessario per l’evoluzione delle classi subalterne. Se mai è da considerarsi genere voluttuario ed elitista, anche se le considerazioni storiche e generazionali richiederebbero ben altre precisazioni).
Sono presupposti sbagliati.
Tant’è che abbiamo proclamato in scritti e conferenze che chi legge o scrive una lingua regionale non è affatto incolto, ma almeno altrettanto edotto quanto chi si serve di una lingua nazionale (dalla quale deve comunque passare per adire alla competenza grafica). I tempi in cui chi parlava una lingua regionale possedeva solo quella e non sapeva né leggerla, né scriverla, sono evoluti.
La lingua regionale, oggi, è un approdo successivo, è un di più. Non è però un di più a latere, ma un di più cardine e fulcro. È una ricerca e un rinvenimento, non un attardamento o un isolamento. La lingua ancestrale diventa parametro centrale e fondamento proprio perché la sua riconquista si fa alla luce e in vista di altri parametri culturali e identitari avvertiti come insufficienti o non specifici. Essere piemontesi oggi significa aver ritrovato la propria identità, non significa per nulla non averne mai possedute altre: anzi, più se ne sono possedute di altre (è il caso dei piemontesi all’estero), più ribadito è il concetto di piemontesità e di identità linguistica regionale. Nel momento in cui approdiamo alla scrittura e alla lettura è finito il dialetto: invariabilmente la scrittura è lingua, e lingua è cultura. Dal piemontese del paesetto si passa al piemontese della grande pagina letteraria. L’analfabetismo e la perizia grafica non possono convivere. Non c’è posto per una grafia da indotti in un simile ambito.
Per ciò, e per molte altre ragioni, non vediamo molta assennatezza in tutto questo tentativo di riforma.
E ancor meno ponderatezza scorgiamo nel voler scombussolare la compagine filologica dei piemontesisti, già così esigua, per motivi che non giustificherebbero neppure un battibecco tra colleghi.
La verità è che a monte di questa “riforma” della grafia piemontese non si sono fatte le dovute riflessioni storiche, linguistiche e culturali.
Si è agito con impazienza.

Ergo, la grafia “fonetica” presenta sconcertanti incongruenze.
Eccone le principali:
Primo, rappresentare i suoni del piemontese con convenzioni “fonetiche” non agevola la lettura a nessuno.
Secondo, si complica di molto la lettura dei documenti redatti in grafia “fonetica” a chi è abituato a leggere i classici piemontesi nella grafia di sempre, rendendo poi ardua la lettura di quest’ultimi a chi avrà avuto per maestri dei “grafisti”.
Per capire la serietà del caso bisogna tenere presenti alcuni dati.
Un buon lettore legge ed assimila tra 40 e 100 parole al minuto, a seconda dei testi e dei contenuti.
Ci sono in media 5,1 lettere per parola in italiano. Ve ne sono 4,5 in piemontese.
I testi letterari in prosa si assimilano mediamente al ritmo di 300 lettere al minuto.
Le parole non si leggono per lettere individuali, come ai primi mesi delle elementari, ma si riconoscono per simboli olistici (cioè a parole intere), come fossero ideogrammi cinesi.
Ciò nonostante, la minima deformazione in un ideogramma interrompe la lettura in cinese, così come la minima disparità di compitazione (come l’omissione di una consonante o la sostituzione di una vocale con un’altra) frastorna la lettura negli alfabeti occidentali.
A chi rende servizio una grafia che interrompe chi legge ad ogni pie’ sospinto? E, per converso, a che giova, a chi ha imparato a leggere in questa grafia “fonetica”, avvicinarsi ai classici quando questi sono tutti scritti nella grafia tradizionale?
Per ovviare a questo incresciosa esclusione, hanno forse i fautori della grafia “fonetica” l’intenzione di riscrivere da cima a fondo tutti i classici? Attenzione: non basterebbero tre generazioni di scribi.
Terzo, tutti i riformatori hanno sempre migliorato, non distrutto quello che hanno trovato.
Noi piemontesi non avevamo bisogno di riformatori per ritornare a scrivere la nostra lingua come la scrivevano e la scrivono tuttora quelli che non conoscono le tradizioni letterarie.
Basta compulsare prontuari e giornali di provincia per avvedersene: è da decenni che coloro che non sanno che c’è una storia della letteratura in piemontese, che non sanno che esistono dizionari piemontesi da più di tre secoli, scrivono “graficamente”, cioè come meglio possono.
Sia detto a lettere cubitali: non sono per nulla da biasimare. Al contrario. Sono alleati e colleghi. Sono da encomiare e da incoraggiare. Hanno contribuito validamente a tener vivo il piemontese nei quattro angoli della Regione. Hanno fatto capire a tutti che la tenace volontà di conservare e di documentare la lingua va ben al di là dei mezzi che si hanno per farlo. Ci hanno fornito prontuari, racconti, raccolte di poesie, di fiabe e di proverbi, documenti di inestimabile valore per mappare il quadro delle varianti diastratiche, diatopiche e diacroniche di questa grande e bella lingua che è il piemontese. Sono opere di insostituibile pregio, ma non si fregiano certo del dubbio onore di aver rivoluzionato la grafia piemontese.
Il problema è ben diverso quando chi scrive e chi insegna a scrivere “foneticamente” conosce le tradizioni letterarie e lessicografiche e scientemente decide di accantonarle per “aiutare” il popolo.
Quarto, si rescindono i legami con la storicità della lingua piemontese.
Quinto, si obbliga chi legge il piemontese a fare il détour per l’italiano, offrendo una compitazione che è chiaramente stilata sul modello di questa lingua e ad esso del tutto servile.
Sesto, si induce in errore il filologo straniero o lo studente allofono, che non leggono sulla falsariga della fonetica e della grafia italiana, ma delle proprie.
Settimo, quando ci si allontana dalla grafia o, comunque, dalla norma storica, la creazione di una nuova normativa esauriente e coerente è assai meno semplice di quanto non sembri: l’attuale grafia fonetica del piemontese è del tutto incoerente ed insufficiente.
Nei giorni immediatamente successivi al 25 marzo 1821, in seguito alla vittoria dei greci a Missolungi, una commissione di più di venti studiosi si mise all’opera per due anni per arrivare ad una tavola di conversione delle lettere dell’alfabeto omerico in quello del greco moderno. Fu la nascita del greco moderno, il cosiddetto katharevousa. Un secolo e mezzo dopo, all’indomani del crollo del regime dei colonnelli, i socialisti in Grecia si precipitarono a cambiare di nuovo ortografia e lessico, per esaltare il demotico. Ne seguì una confusione dalla quale né il popolo, né i dotti in Grecia si sono mai riavuti: tanto per segnalare di quale complessità possa essere il problema della grafia e delle sue riforme.
L’unico esempio di riforma grafica riuscita è stata l’eliminazione del segno di separazione forte nell’alfabeto cirillico alla fine della maggior parte delle parole russe, decretata per legge dallo zar Nicola II su consiglio dei filologi di corte. Risultato: la stampa dei romanzi tanto cari ai russi si è abbreviata di circa dieci pagine su cento, senza la minima conseguenza negativa, tant’è che pochissimi russi oggi riconoscerebbero graficamente il segno di separazione forte, se mai lo vedessero.
Non consideriamo invece come riforma grafica quella della sostituzione dell’alfabeto gotico con quello latino in tedesco, in quanto a ciascuna lettera gotica si sostituì il suo esatto equivalente latino, senza la minima differenza di compitazione. Per pura curiosità storica, la sostituzione dell’alfabeto gotico con quello latino fu l’ultima legge firmata da Adolf Hitler nel suo bunker il giorno del suo suicidio. La sostituzione fu tenuta per valida dalla Repubblica Federale Tedesca, anche perché si sarebbe già dovuta effettuare diversi decenni prima.
Ottavo, i tentativi recentissimi di modificare alcune convenzioni della grafia del francese e del tedesco sono finiti nel nulla, non perché i dotti vi si opponevano, ma perché i rispettivi popoli, molto legati alle proprie inveterate tradizioni, si sono rifiutati in massa di adottare le riforme grafiche proposte dalle rispettive accademie linguistiche.
Non è questo il caso plateale del neoellenico, sopra menzionato. Si trattava di minime modifiche da apportare alla grafia di lingue già da secoli assestate nella loro compitazione e morfologia. La reazione popolare in Francia e in Germania è stata una e la stessa: attenersi alle tradizioni.
Se i popoli amano le proprie tradizioni, in nome di chi gliele vogliamo carpire?
In breve: la grafia “fonetica” non semplifica la lettura o la scrittura, complica l’accesso ai classici e ridicolizza il piemontese agli occhi degli italiani e degli stranieri.

La verità è che la grafia del piemontese è, di per sé, complessa.
Niente di male proporre delle riforme o vagliare delle ipotesi di ricerca. Pacòt e Viglongo, a suo tempo, hanno fatto precisamente quello.
Ben venga il dialogo, a tutti i livelli.
Indiciamo un convegno sulla grafia del piemontese e soppesiamo tutte le possibilità, con un occhio alla tradizione e uno alla semplificazione.
Ma anche se la grafia piemontese non fosse già consolidata da secoli e la potessimo reinventare dal nulla, seduti a tavolino, non potremmo fare a meno di accenti (come in tutte le lingue neolatine) o di convenzioni grafiche ben diverse da quelle dell’italiano o, per quel che conta, da quelle delle altre lingue neolatine.
Il Prof. Bruno Villata, autore del più autorevole studio sulla fonetica del piemontese, da lui isolata da tutte le altre fonìe della Romània, ha convincentemente dimostrato che il piemontese si distingue foneticamente da tutte le altre lingue neolatine. È stato il primo e il solo, a tutt’oggi, ad averlo fatto (aspettiamo con ansia una riedizione accessibile a tutti dei suoi studi fondamentali sulla Lingua d’Oè e sul piemontese in prospettiva fonetica, morfologica e storica).
Mi pare pacifico dedurre da tutto ciò che il piemontese ha diritto ad una sua grafia. Questa grafia è consolidata da oramai tre secoli. Prima di cambiarla bisognerebbe pensare ad armonizzare passato e presente: come deve fare ogni savio riformatore.

Ma se il piemontese è difficile da scrivere, guardiamoci attorno.
A che giova, ad esempio, constatare che l’italiano è una lingua facile da scrivere e da leggere, quando poi ci si trova davanti ai Sepolcri di Foscolo, alla Ginestra di Leopardi o al Saul di Alfieri?
Potremmo mai proporre un curriculum di studi liceali senza includervi queste opere e questi autori? Credo proprio di no: il Romanticismo in Italia non avrebbe molti altri capisaldi su cui poggiare.
Ma allorché i francesi e gli inglesi possono ancor oggi andare a nanna leggendo qualche verso o qualche pagina dei loro grandi poeti romantici o dei loro romanzieri del Settecento e dell’Ottocento, noi certo non cercheremmo di addormentarci leggendo opere classiche della stessa epoca. Si sono scritti libri sull’impopolarità della letteratura italiana. Gramsci ha spezzato più di una lancia contro questo fatto increscioso.
La letteratura piemontese invece non conosce accezioni neoclassiche o volutamente antipopolari.
Al contrario: da Isler a Calvo, da Brofferio a Rosa, da Pietracqua a Ferrero, da Costa a Pacòt, da Frusta e Cosio, da Olivero a Nicola, da Brero a Dorato, tutto è stato pazientemente, saggiamente e genialmente costruito per offrirlo al pubblico per immediato ed universale consumo.
Neppure i patoisants e les poètes exquis si sono sottratti a questa esigenza fondamentale: il che non può essere detto di tutte le produzioni regionali del Novecento italiano (da cui si desume che scrivevano in dialetto, ma con in mente i parametri letterari dell’italiano).
Superate le difficoltà della grafia, il compenso per chi legge il piemontese è ben superiore alla fatica: teatro, lirica, narrativa, fiaba, romanzo, critica letteraria attendono chi paga questo modestissimo obolo.
Ma, a conti fatti, anche ammettendo che il piemontese, a differenza dell’italiano, è difficile da scrivere, ci accorgiamo che, in fondo, il problema vero non è quello.

Il problema vero non è per nulla la grafia.
Per chi impara il problema è avere dei buoni maestri.
Le convenzioni grafiche si superano con relativa facilità. L’assenza di un’adeguata docenza, no.
Ora che le scuole della Regione Piemonte si stanno aprendo al piemontese, assistiamo alla formazione di ottime docenze. Ne siamo orgogliosi e deliziati. Tra di loro vi sono dei giovani: non siamo più isolati e ciò rinfocola le nostre energie e la nostra speranza.
Ma un’ottima docenza non è costituita solo da chi sa insegnare, ma di chi sa inserire il proprio insegnamento in un quadro storico e sociale.
E il quadro sociale cambia ad ogni generazione e, a volte, anche durante la stessa generazione. Da qui la necessità da parte di un vero maestro (quale che sia la disciplina che insegna) di fare considerazioni che vanno ben oltre le tecnicalità.
Un bravo maestro è sempre un pensatore prima che uno specialista della propria materia.
È qui che incappiamo in serie difficoltà.

Orbene, anche conteggiando nel novero dei piemontofoni quelli che in questi ultimi tempi imparano questa lingua, si è sempre in pochi e pericolosamente vicini a quel gruppuscolo di poche migliaia di locutori che i linguisti indicano come la massa critica minima prima dell’estinzione.
Ma pochi non vuol certo dire di poco valore: chi legge e chi scrive è in sintonia spirituale con chi ha letto e ha scritto in tutti i tempi, in tutti i luoghi, in tutte le lingue.
Chi legge e scrive una lingua regionale invariabilmente legge e scrive anche lingue nazionali. A volte perfino lingue di altre regioni o etnie. Magari delle lingue classiche. È, questo saper leggere una lingua regionale, indice di distinzione e di elezione culturale. Se a questo si aggiunge il fatto che la letteratura piemontese è ricca e plurisecolare non si durerà fatica a convenire che non si è mai di dubbio valore in tale e tanta compagnia.
Così come non penso verrà mai ad alcuno l’idea di riscrivere Dante in grafia analogica (”Nel medzo del kammin … “) per renderlo più accessibile ai tre milioni di extracomunitari oggi residenti in Italia, a maggior ragione a nessuno dovrebbe venir in mente di commutare lo storico “oloch” nel grafico “uluch”, proprio perché a grave carenza di senno nessuna convenzione grafica potrà mai porre rimedio.

25/01/2005 – Sergio Gilardino sgilardino@libero.it

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