LINGUA E DIALETTO. RIFLESSIONI EPISTEMOLOGICHE

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GUSTAVO BURATTI ZANCHI (TAVO BURAT)

Bergamo – Sede dell’Ateneo – 15 ottobre 2004

Louis Jean Calvet, sociolinguista della Sorbona di Parigi, a proposito della “glottofagia” che caratterizza la linguistica, quasi sempre tesa a negare alle classi subalterne o colonizzate lo strumento linguistico per liberarsi, e prendere coscienza dell’oppressione subita, rievoca la vicenda di due uomini d’oltralpe del XIX secolo. Un bretone: Emile Masson, che diceva ai suoi compagni di partito: “La propaganda libertaria, ovunque la si faccia, deve essere nel dialetto della regione”, lasciandosi così catturare nella trappola che, pure, egli aveva denunciato: i trucchi dei mandarini per mangiare le lingue diverse. Un provenzale: Victor Gelu, panettiere poeta di Marsiglia il quale, benché scrivesse canzoni politiche in occitano e tenesse i suoi comizi nella parlata popolare:

«…non seppe afferrare l’occasione che gli si offriva di dare alla sua lingua uno statuto “nobile”, facendo la sua campagna in occitano. Ci resta in particolare un manifesto indirizzato “agli operai Marsigliesi”, firmato “Victor Gelu boulanger”, interamente redatto in francese. Questo vuol dire che la pressione ideologica era già sufficientemente forte da indurre un intellettuale, sia pure autodidatta, a considerare il francese come la sola lingua nobile dell”Exagone”, e il solo idoneo a comunicare un certo numero di idee serie. Per Victor Gelu, la lingua d’oc è l’idioma per parlare al popolo, la lingua dei quartieri poveri di Marsiglia: ma non certo la lingua per parlare a Parigi, per rivolgersi a Parigi, e per andare in Parlamento (…) Il peso dell’ideologia è così forte che spesso anche quegli stessi che difendono le proprie lingue oppresse contro la centralizzazione glottofaga ne rimangono talvolta vittime. Che dire allora di quanti, parlando la propria lingua, non hanno potuto acquisire gli strumenti per criticare quella concezione che l’ideologia dominante impone loro?! Il loro unico rifugio è un senso di colpa pentita: sì, è vero noi parliamo questo “dialetto”, questo “patois”, ma la nostra più grande aspirazione è di parlare francese (…) almeno i nostri figli impareranno la lingua. Allora la battaglia di retroguardia di un Gelu e di un Masson non ha più un grande significato: non è più dalla lingua imperiale che essi difendono il bretone o l’occitano, o dal giacobinismo trionfante, ma dagli stessi bretoni e occitani. La tradizione dispregiativa legata alla falsa coppia lingua-dialetto, venuta dai tempi più remoti, ma ripresa e rinnovata con una vernice di “scientiticità” dai linguisti, si è così fatta strada fin nel profondo della mente della gente». (1)

Calvet prosegue poi dimostrando a coloro che parlano sempre e soltanto di “lotta di classe” innanzi tutto, l’importanza di impegnarsi nella battaglia della lingua, contro coloro che intendono divorarla; e a coloro che ritengono di fare una battaglia meramente sul piano culturale, come, invece, le lingue disprezzate devono difendersi sur piano politico, innestando la lotta con quella delle classi oppresse (p. 180 e ss.). Calvet definisce dunque la distinzione lingua-dialetto una “falsa coppia”. In effetti non esiste un criterio scientifico che possa fornire la certezza della distinzione. Non c’è esame scientifico che possa ritenersi valido; non esiste una cartina di tornasole cui sottoporre un idioma per affermare, dal colore risultante, se trattasi di “lingua” oppure di “dialetto”. Dal punto di vista sociologico, porriamo definire “dialetto” gli idiomi privi di riconoscimento ufficiale, e che patiscono una emarginazione culturale, trovando essi chiuse le porte delle amministrazioni pubbliche, delle scuole, delle chiese.

Da un punto di vista linguistico, tale linea discriminante, essenzialmente “politica”, non è valida. Nulla vieta che un idioma trovi oggi le porte chiuse e domani, invece, per una mutata situazione politica, le trovi aperte. Pensiamo a quanto è avvenuto in Spagna durante il regime franchista, gli idiomi regionali erano “dialettacci”‘, addirittura proibiti, mentre oggi, nella Spagna democratica, gli idiomi delle Regioni linguisticamente caratterizzate sono ufficialmente riconosciuti quali lingue: ciò è avvenuto per il Basco, il Catalano, il Galiziano e sta compiendosi per l’Aragonese e l’Asturiano. Ma occorre dire che anche sotto il regime di Franco la medesima parlata poteva avere un status differente, di qua o di là del confine politico: in Francia il Catalano ed il Basco erano già ritenuti lingue minoritarie dalla Legge Deixonne (1951); ad Andorra, piccolo Siato sovrano, il Catalano è sempre stato considerato, fieramente, lingua ufficiale, mentre nella spagna franchista il Catalano era un dialetto da bandire, Pertanto la medesima parlata, sincreticamente, può essere lingua o dialetto da una parte o dall’altra di un medesi moconfine. Nei Paesi Bassi l’Olandese è pacificamente una lingua ma, appena passata la frontiera, nella Repubblica Federale Tedesca, si parlano dialetti molto simiri a quelli in uso nella finitime Olanda. In Germania si tratta Plattdutsch, cioè di dialetti del Niederdeutsch (Basso tedesco); oltre il confine sono varianti della lingua olandese.

Diacronicamente, lo statuto lingiistico può variare nel tempo. La lingua d’oc (o Provenzale o Occitano) fu lingua  alla moda nel Medioevo, coltivata nelle corti di tutta Europa; dopo la conquista dell’Occitania nel XIII secolo da parte dei re capetingi, decadde a povero patois; con Federico Mistral (1830-1914), di cui ricorre ora il centenario del conferimento del Premio Nobel (l’unico dato ad un poeta in una lingua non di Stato!), ha riacquistato la dignità di lingua, lingua ora insegnata (anche se soltanto facoltativamente) nelle scuole di ogni grado dalle materne all’Università.

Il Bergamasco non è un italiano mal parlato ma, se vogliamo, un “latino mal parlato”, perché dal Latino nasce, avendo la stessa radice della langue d’Oil (cioè del francese moderno) e della langue d’Oc, del Catalano, del Castigliano, del Portoghese, del Retoromancio, del Romeno. Si tratta qui dell’evoluzione del Latino com’era parlato in un’area poi divenuta Lombardia orientale. Lo stesso si può dire per le altre regioni d’Italia con maggiori o minori lontananze (cioè differenze) rispetto alla matrice latina comune. Abbiamo allora lingue romanze “fortunate”, andate a palazzo come le sorellastre di Cenerentola e, invece, povere Cenerentole escluse dal palazzo, obbligate a rimanere al focolare od a pascolare le oche ed i porci. Evidentemente, da quando i focolari sono stati sostituiti dai termosifoni e i pascoli dagli allevamenti in “batteria”, cioè in stalle organizzate industrialmente, le povere Cenerentole una dopo l’altra, i va an pòlver de bocài. Questa è la triste realtà.

I veri dialetti italiani sono i diversi modi di parlare l’Italiano. L’italiano che parliamo a Bergamo o a Biella, non è quello parlato a Palermo, prescindendo dalle rispettive lingue regionali (Piemontese, Orobico e Siciliano). Cominciamo dalle differenti cadenze (la musicalità di un idioma), dagli accenti. Se io dico “vado béne in biciclètta”, altrove dicono: “vado bène in biciclétta”. Dove troviamo una “é” (con l’accento acuto) altrove risulta una “è” con accento grave), e viceversa. Ma le differenze non sono soltanto fonetiche, ma anche strutturali. Ad esempio noi usiamo il passato prossimo e non usiamo il passato remoto, mentre lo si usa dall’Italia centrale in giù: “ieri vidi”, “ieri mangiai”, “ieri parlai”, etc, etc. Strutture inesistenti nell’Italia del Nord. Oppure, noi usiamo “essere” e “avere”, al Sud troviamo frequentemente questi verbi sostituiti da “stare” e “tenere”. Può succedere allora che l’insegnante, in una nostra scuola, chieda: “dove sta il tuo libro?” Lo scolaro può rimanere confuso: il libro non ha un indirizzo! Si tratta pertanto di forme notevolmente diverse, pur essendo tutte “italiane”. Ci sono anche differenze lessicali. Se per riferirsi ad una attività commerciale, si dicesse di avere una “mesticheria”, ben pochi Bergamaschi comprenderebbero che si tratta di un negozio di colori; ma questa insegna è normale a Livorno…

Le differenze fonetiche, strutturali e lessicali che differenziano il Bergamasco nei confronti dell’Italiano, vanno ben oltre quelle che abbiamo segnalato. Non c’è qui il tempo per rilevarle, e del resto chi mi ascolta è più in grado di me di evidenziarle. È sufficiente sottolineare che il Bergamasco differisce dall’italiano non meno di quanto la Langue d’Oil differisca dalla Langue d’Oc, il Castigliano dal Catalano, l’Olandese dal Tedesco.

Dall’aspetto linguistico, passiamo ora a quello letterario, dove la “falsa coppia” lingua-dialetto ha pure una forte rilevanza.

Lo scrittore e critico Pietro Pancrazi (Cortona 1893 – Firenze 1952) presentando nel 1937 il poeta triestino Virgilio Giotti, scriveva:

Una cosa è la poesia in ‘dialetto’, una cosa è la poesia ‘dialettale’. La poesia dialettale il suo nutrimento maggiore lo trova in atteggiamenti e sentimenti connessi al colore esterno e all’ambiente delle parole che usa: è più folklore che poesia. La ‘poesia in dialetto’ invece non accetta il folklore, e al dialetto chiede soltanto l’espressione ed il suono, la qualità intima che si richiede ad ogni lingua (2).

Esatto: “ad ogni lingua”. Poiché, allora non è più “dialetto”, ma “lingua”. Ciò che conta, per la differenza, è il risultato: se il poeta è riuscito ad approdare alla Poesia, il suo idioma sale a livello di “lingua”. Il Milanese, dialetto nella “bosinada”, è lingua nelle composizioni di Delio Tessa, Cesare Mainardi, Franco Loi. Potremmo dire, allora, che la “Poesia dialettale” è un genere che patisce il ghetto dove l’idioma è stato confinato, rinchiuso in un limitato orizzonte; la “Poesia in dialetto”, invece, è “Poesia” e basta: scritta, cantata da noi, in Italia, in una lingua sfortunata, ma “neolatina” (non “neoitaliana!”) proprio come quelle lingue sorelle salite a Palazzo… ma anche lei, povera Cenerentola, diventa regina grazie alla fata Poesia: il miracolo che Dante ha fatto col volgare toscano, e Mistral con il patois. Pinin Pacòt (Giuseppe Pacotto, 1899-1964), mio Maestro di poesia e di lingua piemontese, aveva ben teorizzato tutto ciò nella sua rivistina “lj Brandé” (gli alari) (3) già nel 1927, in anni della trionfante retorica di “Roma doma”, non certo favorevoli alle rivendicazioni “dialettali”. Pier Paolo Pasolini, 17 anni dopo (aprile 1944, nella piena stagione della Resistenza), sulla sua rivistina friulana “Stroligut di ca de l’aga” usa parole praticamente identiche a quelle di Pacòt per chiarire come un “dialèt” possa diventare “lingua” grazie alla poesia.

Eppure a quel tempo Pasolini non conosceva ancora Pacòt, al quale dedicherà un capitolo dell’antologia che scrisse con Mario dell’Arco (Guanda, 1952) riportando all’inizio proprio le parole del poeta piemontese: “A l’é ciàir, an partensa, ch’as trata d’un preconcet: col ëd chërdi che la poesìa, così dita dialetal, a deva sempre esse popolar”. Infatti su Ij Brandé a Pacòt toccava il compito di ingaggiare un dibattito con coloro che arricciavano il naso innanzi alla “lirica”, preferendo invece che i dialettali lasciassero la poesia squisìa destinata a pochi squisì: insomma i Brandé avrebbero dovuto lasciar perdere la “poesia in dialetto” per la “poesia dialettale” genuina, secondo la vecchia tradizione “vernacola”: in versi che muovono al riso od alla commozione, ma comunque di gusto “teatrale”, adatti ad essere declamati in pubblico, su un palco o alla fine delle cene conviviali.

Dunque, i Brandé (così si sono chiamati dal 1927 i poeti “impegnati” nella lotta per la “lingua” piemontese) hanno dovuto darsi molto da fare per trovare il varco dal ghetto. Tuttavia, quella battaglia non è ancora vinta del tutto. Il professore d’estetica Gillo Dorfles scrive:

Tutta la mia simpatia per i dialetti si è subito spenta. Mi è parso di constatare che un dialetto forzatamente letterario oggi non è più utilizzabile per versificazioni ‘attuali’ (come lo era al tempo del Belli e del Porta) perché non riesce a piegarsi a certe forzature lessicali, a certo ‘asintattismo’ come accade ormai per la lingua istituzionale. Ecco perché il dialetto dovrebbe rimanere un vernacolo familiare senza aspirare a quelle sofisticatezze che invece sono indispensabili in una composizione letteraria. E questo, salvo il caso che siano vere e proprie lingue, ‘ufficialmente riconosciute’, come il Catalano, il Sardo, il Friulano. (4)

Facile da capire allora perché noi ci teniamo così tanto ad essere “ufficialmente riconosciuti”. Perché, altrimenti, non possiamo evadere dal ghetto, e la nostra lingua può soltanto servire a imprecare o a far testamento… da leggere prima di finire sul falò del carnevale.

Secondo il prof. Dorfles, senza la patente ufficiale non si potrebbe (proibito!) comporre poesia impegnata; proprio come ritiene la Chiesa, sostegno del potere: se non c’è il benestare dello Stato (non importa se piccolino come quello del principe Ranieri III di Monaco), non si può celebrare la Messa in una lingua “piccola”.

Pasolini definiva questi saccenti inquisitori i “nuovi chierici”; ed infatti ci vengono alla mente quei frati che spedivano al rogo gli eretici, i liberi pensatori e quelli che osavano scrivere ancora in lingua d’oc.

Bisognerebbe domandare al prof. Dorfles se, prima che giungesse la patente “ufficiale”, un “versificatore” poteva o meno “aspirare a quelle sofisticatezze” e diventare poeta. Forse no. Per fare autentica Poesia, occorre fare le pratiche perchè la lingua sia ufficialmente riconosciuta. In Sardo e in Friulano (grazie a quei docenti universitari che hanno promosso i loro idiomi da “dialetto”, come erano fino a ieri definiti, a “lingua”, come sono riconosciuti ora), si può approdare alla lirica; in Bergamasco ed in Piemontese, no. Già lo sapevamo, ma udirlo da un professore stimato, così esplicitamente, ci dà qualche brivido.

Sarebbe come dire che gli Africani non valgono gli Europei, le donne gli uomini, i meridionali i settentrionali, eccetera. Una cultura razzista esiste, ma vederla spiattellata come una ragione luminosa…

Qualcuno ha detto che “una tingua è un dialetto con cannoni e con esercito…” sarà per ciò che chi vi parla, pacifista, è partigiano dei dialetti. Per fortuna, sullo stesso autorevole giornale (5), Cinzia Fiori rimette le cose a posto con un suo intervento: “Lingua o dialetto: conta solo la poesia”. Pareggio, allora? E no. Purtroppo in quel medesimo articolo, insieme a giuste considerazioni, Franco Loi dice alla Fiori:

Ma nessuno vuole salvare il dialetto! Io non ho una particolare simpatia per il dialetto in sé,è che ho simpatia per le lingue vive…

Beh, noi saremo “quasi niente”, ma non “nessuno”. Noi, che i dialetti vogliamo salvarli. Gerhard Rohlf, forse il massimo linguista moderno, ha scritto che l’Italia, con la sua linguistica varietà, possiede una ricchezza straordinaria… Si vogliono preservare gli ultimi lupi, e anche i due o tre orsi del Trentino: ed è bene. Ma non valgono forse quanto i “dialetti”? I nostri parlari si estingueranno comunque, lo sappiamo. Ma come avviene per una persona cara, di famiglia, gravemente malata, cerchiamo di fare tutto il possibile per prolungare loro la vita (e chi ci crede, anche prega). È vero: siamo pochini, contiamo ancor meno: ma ci siamo e resistiamo.

Benché ci siano ancora accademici alla Dorfles, le antologie testimoniano che molti sono “i poeti in dialetto” riusciti a svincolarsi dalla “poesia dialettale”, e che le loro opere sono riconosciute dai critici quali le più meritevoli di essere scelte a scapito delle “bosinate” vernacole. Dunque, la battaglia per riconoscere che i dialetti possono essere validi strumenti per elevarsi alla lirica, come le “lingue” (e pertanto, per sillogismo, sono “lingue”), si può ritenere vinta. Ma dobbiamo ancora amaramente constatare che le “antologie della poesia dialettale italiana” preferiscono qualificarsi così, anziché “poesia in dialetto” o, meglio ancora, in “lingua regionale”. In più, riterremmo più serio redigere antologir in ogni lingua regionale (Antologia della poesia piemontese; – della trentina; – della veneta; – dell’orobica; – della napoletana; – della siciliana, eccetera). Infatti nessun critico per quanto specializzato conosce tutte le lingue regionali d’Italia; e, di conseguenza, effettua così la sua scelta in base alla sola traduzione italiana (quando esiste…); ed inoltre ci pare una pretesa quella di porre nel medesimo fascio poeti di una ventina e più di regioni, che potrebbero essere (lo sono?) “nazioni proibite”.

In Svizzera, per esempio, nessuno si sogna di redigere antologie dove il Retoromancio si trova assommato ai Tedeschi, Francesi ed ltaliani! Eppure tutti coloro che parlano i cinque dialetti retoromanci non raggiungono i cinquantamita abitanti di Biella! Tuttavia a nessuno fa meraviglia se la letteratura romancia conta decine e decine (centinaia?) di scrittori; mentre invece quelli che Camillo Brero aveva antologizzato per il Piemonte sarebbero “troppi”… eppure i parlanti piemontesi sono ottanta volte più numerosi dei Retoromanci! Già, ma il Romancio è una “lingua”, mentre il Piemontese soltanto un “dialetto”… Ancora: se è normale che lingue di stato siano unificate, la koiné – o lingua comune “normalizzata” – sarebbe una disgrazia per le lingue regionali:

Purchè non affrettino la morte improvvidi paladini dei dialetti: ci sembra, per esempio, che predicare la formazione di una ‘koinè’ voglia dire accelerare la dissoluzione del dialetto nella lingua italiana regionale. Altri inconsapevoli avversari del dialetto ci paiono coloro che vogliono introdurla come materia di studio nella scuola o che chiedono che ne sia fatto uso nella burocrazia (6).

In sostanza, qui si riconosce, finalmente, alla parlata locale titolo per approdare alla lirica, ma si ribadisce la differenza tra “lingua” (insegnata a scuola, usata dalla burocrazia), e il “dialetto” che deve accontentarsi di essere usato in poesia, e basta. Ci si dovrebbe allora spiegare perché ciò che è permesso ai “dialettali” romanci, ladini, friulani, sardi, occitani o provenzali, bretoni, baschi, gaelici eccetera – tutti impegnati alla ricerca di una koinè, ed ad aprire ai loro parlari le porte delle scuole, delle chiese e della pubblica amministrazione, moltiplicando così coloro che sono in grado di scrivere la “piccola lingua” e comporre opere meritevoli – sarebbe invece un male per il Piemontese, l’Orobico, il Milanese o Lombardo occidentale, il Veneziano, l’Emiliano, il Romagnolo, il Napoletano, il Siciliano…

Ma questi critici, questi accademici, si guardano bene dal darci un chiarimento, e non si curano affatto di quanto si faccia nei territori delle altre lingue meno diffuse.


Giungiamo, così, al punto di dover passare dalla linguistica e dalla letteratura, all’ordinamento giuridico, e a vedere quali siano le conseguenze della differenza tra un idioma riconosciuto come “lingua”, e quello invece risultato bocciato al rango di “dialetto”.

Quando il 20 novembre 1991 la Camera dei Deputati votò la legge n. 612 per la tutela delle minoranze linguistiche per attuare l’art 6 della Costituzione (La Repubblica tutela le minoranze linguistiche con apposite norme) alla vigilia della votazione, e subito dopo, si scatenò un isterismo nazionalista dalla destra e dai neofascisti, ma anche da intellettuali di sinistra: Valerio Castronovo, Gian Enrico Rusconi, Massimo Salvadori, Saverio Vertone… scrissero una lettera aperta a Craxi ed a Achille Occhetto, dicendosi scandalizzati che iI P.S.I. e il P.D.S. appoggiassero quella proposta di legge. Per fortuna, c’erano anche dei valenti sostenitori, come Ulderico Bernardi, Antonio Cassese, Alberto M. Cirese, Tullio De Mauro, Umberto Eco, Mario Lizzero, Donald O’ Riagain, Renzo Titone, Aldo Ghisalberti (7). Diceva l’on. prof. Massimo Salvadori (P.D.S.) riportando i documenti dello storico Castronovo: «non vorrete mica insegnare il bergamasco o il parlare di Canicattì?» Ma, diciamo noi: dove è mai scritto che il parlare di Bergamo o di Canicattì siano meno degni dell’Inglese, o del Francese o dell’Italiano? Non è forse uno schema razzista quello di fare classifiche tra lingue e culture? Non hanno forse pari dignità, così come un aborigeno melanesiano ha la stessa dignità di un banchiere di Zurigo, o professore di Berlino?

È questo, ancora una volta, il frusto ragionamento del colonizzatore: cosa vale la parlata “barbara” in confronto a quella di Shakespeare, di Goethe, di Dante, di Racine, di Cervantes, di Camoens? Come ritenere che la lingua degli Yanomani possa meritare di essere tramandata alla pari del Portoghese; o quella della tribù del Camerun, alla pari del Francese? Cosa importa al colonizzatore la difesa della biodiversità? Le lingue locali devono lasciare il posto alle “grandi” lingue europee, come le monoculture delle arachidi e degli allevamenti intensivi devono spazzar via tecniche e coltivazioni locali, e la pastorizia nomade lasciare il posto allo sfruttamento intensivo per produrre gli hamburger nei Mc Donald.

Non si comprende perché mai i bambini della val Seriana e quelli di Canicattì non dovrebbero apprendere innanzi tutto a scrivere la propria parlata, per passare poi all’italiano ed a quante altre lingue siano portati ad apprendere. La prima preoccupazione dell’insegnante dovrebbe essere la riuscita dell’innesto, salvando il “selvatico” per ottenere frutti migliori. La cultura originaria va comunque mantenuta viva, rispettata, altrimenti si offendono, sin nel profondo dell’anima, le origini contadine, popolari di chi parla diverso, predisponendo all’alienazione, a turbe psicologiche, ad una mancanza di equilibrio, caratteristiche degli sradicati.

La legge votata nel 1991 a maggioranza alla Camera (votarono contro i deputati del MSI e del PRI), avrebbe dovuto passare poi al Senato, ma fu trattenuta nel cassetto del presidente Giovanni Spadolini che dichiarò in pubblico: «se posso parlare in quanto presidente del Senato, sono assolutamente contrario al varo di una legge per le parlate locali», e rifiutò di metterla, come era suo compito, all’Ordine del Giorno dei lavori.

Così la legge 612 votata alla camera, decadde con la fine della legislatura (marzo1992). Dopo due legislature, il dibattito parlamentare riprese e finalmente nel dicembre del 1999 fu approvata anche al Senato la Legge 482 sulla tutela delle minoranze. Ma, già come era previsto nella vecchia proposta 612/1’991, altro che parlari di Bergamo e di Calicattì! La legge dispone di misure per la tutela delle minoranze di lingua albanese, catalana, croata, francese, greca, ladina, occitana, slovena, tedesca (compresi i Cimbri ed i Walser) e, in più, due lingue fino allora considerate “dialetti”: il Friulano ed il Sardo. La soluzione ottimale, non discriminatoria, rispettosa dell’esigenza di salvare la biodiversità, sarebbe stata di delegare alle Regioni la tutela del patrimonio linguistico delle popolazioni locali, magari facendo salvo l’obbiigo nei confronti delle minoranze propriamente dette (riferentisi cioè alle lingue riconosciute come tali già in altri Stati europei). Invece, non c’è nulla per le altre lingue regionali, condannate così all’estinzione. Si hanno allora situazioni paradossali: ad esempio, il Ligure non gode di alcuna protezione, ma il parlare di Olivetta S. Michele, minscolo comune dell’entroterra di Imperia, è tutelato in quanto – pur essendo una parlata di transizione tra il genovese ed il provenzale – è riconosciuto come “occitano”!

Pier Paolo Pasolini lascerà scritto nel suo testamento spirituale letto postumo al congresso radicale:

L’alterità esiste di per sé nell’entropia capitalistica. Quivi essa gode (o per meglio dire, patisce, e spesso orribilmente patisce) la sua concretezza, la sua fattualità. Ciò che è, e l’altro che è in esso sono due dati culturali. Tra tali due dati esiste un rapporto di prevaricazione, spesso, appunto, orribile. Trasformare il loro rapporto in un rapporto dialettico è appunto la funzione, fino ad oggi, del marxismo: rapporto tra la cultura dominante e la cultura della classe dominata. Tale rapporto non sarebbe dunque possibile là dove la cultura della classe dominata fosse scomparsa, eliminata, abrogata, come dite voi. Dunque bisogna lottare per la conservazione di tutte le forme alterne e subalterne di cultura.

Nove giorni prima di essere massacrato, Pasolini in un seminario sul “Rapporto tra dialetto e scuola”, tenutosi al Liceo Scientifìco di Lecce per insegnanti delle Medie superiori e diretto dal prof. A. Piromalli e da chi vi parla nell’ottobre del 1975, concluse il proprio intervento sottolineando la «necessità di lottare contro questo nuovo fascismo che è l’accentramento linguistico e culturale del consumismo» (8).

È chiaro che in quest’ottica esistenziale, non ha alcun senso far differenze tra lingua e dialetto, tra Friulano, Occitano, Sardo, Ladino e Bergamasco.

A livello europeo, il Consiglio d’Europa (con sede a Strasburgo, formato da 40 Paesi), da non confondere con l’Unione Europea (con sede a Bruxelles), da tempo ha affrontato tematiche fondamentali nel settore dei diritti umani, qual è quello della tutela delle minoranze. ll primo intervento mirato sull’argomento (dopo alcune iniziative sporadiche), è costituito dal Documento n. 4745, discusso nell’Assemblea nella sessione del 12 giugno 1981, che ha dato luogo alla Raccomandazione n. 928 del 1981. In questo documento viene sottolineata l’importanza della difesa delle minoranze linguistiche e delle lingue regionali europee, di cui se ne elencano 51, e ad ognuna delle quali viene dedicato un paragrafo molto riassuntivo. Al n. 39 è riportata la “lingua piemontese”, al n. 35 il “Meneghino” o Lombardo occidentale.

Altro documento europeo molto importante è la Risoluzione 192 del 1988, discussa nella XXIII sessione (15-17 marzo 1988), durante la quale è stato elaborato il primo progetto della “Carta per le Lingue regionali e minoranze linguistiche”. Questo documento darà origine ad un trattato che porterà la medesima intitolazione:

All’art.1, di questo progetto si legge:

Disposizioni generali-definizioni. Ai sensi della presente convezione, con lingue regionali o minoritarie si intendono le lingue appartenenti al patrimonio culturale europeo quelle:

a) tradizionalmente parlate in un territorio da persone e cittadini dello Stato che costituiscono un gruppo numericamente inferiore al resto della Popolazione dello Stato;

b) diverse dalle lingue parlate dal resto della popolazione di quello Stato. Con ‘territorio in cui è parlata una lingua regionale o minoritaria’, si intende l’area geograficà in cui questa lingua costituisce il mezzo d’espressione di un numero di persone tale da giustificare l’approvazione dei vari provvedimenti di tutela previsti dalla presente convenzione. Con l’espressione ‘discriminazione’ si intende qualsiasi distinzione, esclusione o preferenza di una lingua regionale o minoritaria o che rechi pregiudizio all’eguaglianza dei diritti dei locutori di queste lingue rispetto ai locutori delle lingue più diffuse nei settori della vita privata o pubblica. Con ‘lingue prive di territorio’, si intendono le lingue appartenenti al territorio culturale europeo, parlate dai cittadini dello Stato, diverse dalla lingua parlata o dalle hngue parlate nel territorio dello Stato ma che, seppur tradizionalmente parlate nel territorio dello Stato, non possono venir collegate ad un’area geografica specifica di esso

(quindi, in pratica popolazioni nomadi).

Come si può vedere, in queste definizioni fondamentali non veniva fatta discriminazione tra “lingue” e “dialetti”, ma si parlava in genere di “lingue” e il discorso non era approfondito. Probabilmente perché non si volevano prestare armi, cioè pretesti, a chi ricorre allo stratagemma di non tutelare una determinata lingua facendola apparire un dialetto, come accade, ad esempio, al Macedone. A lungo si è dibattuto se esso si debba considerare lingua autonoma, oppure un dialetto bulgaro. I Bulgari hanno sempre sostenuto la tesi che vorrebbe il Macedone quale variante del Bulgaro. I Macedoni, da parte loro, come abitanti sia della Macedonia propriamente detta (già membro della federazione Jugoslava ed ora repubblica indipendente), sia della Grecia, sia della piccola minoranza presente in Albania, sostengono invece che il Macedone è diverso dal Bulgaro. Per evitare ambiguità del genere non si è voluto discriminare.

La discriminazione appare invece nella Carta-Trattato europeo n. 148 del 2 ottobre 1992, sottoposta alla ratifica degli Stati membri del Consiglio d’Europa. Tale Carta-Trattato, entrava in vigore (per gli Stati che l’avessero firmata e ratificata) se ratificata almeno da cinque degli stati membri: ciò avvenne in effetti a fine l998, inizio ‘99. L’Italia con notevole ritardo ha firmato (Ministro Dini, 27 giugno 2000) e soltanto il 16 ottobre del 2003 la camera dei Deputati ha ratificato questa “Charte européenne des langues régionales ou minoritaires”. Manca tuttora la ratifica del Senato. La discriminazione Lingua-Dialetto che, come abbiamo visto, non figurava nel documento-bozza (Risoluzione 192/88), compare, invece, nel trattato definitivo. Infatti l’art. 1 ricalca la risoluzione 192/88, ma con una modiflca aggiuntiva (traduco dal Francese):

Con l’espressione lingue regionali o minoritarie si intendono le lingue praticate tradizionalmente sul territorio di uno stato i cui cittadini costituiscono un gruppo numericamente inferiore al resto della popolazione dello Stato medesimo e differenti dalle lingue ufficiali di questo Stato;

qui viene l’aggiunta:

esse non includono né i dialetti della lingua ufficiale dello Stato, né le lingue dei migranti

(cioè degli immigrati: quindi si tratta, evidentemente di tutelare le lingue così dette storiche, in quanto radicate nel territorio).

Chiaramente, i dialetti intesi quali mere varianti della lingua ufficiale sono esclusi. Il punto è: chi decide se un idioma è lingua, oppure un dialetto-variante? Chi ha la competenza di tracciare la discriminazione? La risposta è: gli Stati membri. Sono loro, nell’ambito della propria sovranità a decidere se un idioma regionale è da considerarsi “lingua”, oppure “dialetto”. In tal modo si è ritenuto di evitare diatribe con conseguenze anche internazionali.

Tornando al caso del Macedone, spetta quindi agli stessi Macedoni decidere se per il loro idioma trattasi di variante del Bulgaro, o meno. Per quanto riguarda la repubblica indipendente di Macedonia, il Macedone è colà lingua ufficiale ed il problema non si pone. Più complicato è laddove il Macedone è minoranza: ma anche in tal caso, gli Stati che hanno nel loro territorio tale minoranza non hanno grande interesse a stabilire se si tratti di Bulgaro o meno: esso è comunque idioma diverso dalla lingua ufficiale.

Per quanto riguarda la Grecia l’atteggiamento nei confronti delle proprie minoranze è scandaloso: non ha ancora ratificato la “Carta”, perché nega l’esistenza di minoranze nel proprio territorio; nega, cioè, l’esistenza dei Turchi, dei Macedoni, degli Albanesi, riconoscendo soltanto nei Turchi la minoranza religiosa islamica. Non esistendo ufficialmente, poco importa alla Grecia se i Macedoni costituiscono o meno una minoranza bulgara. Così pure ha poca importanza in Albania, dove peraltro la piccola minoranza pubblica periodici in tale idioma, evidentemente non assimilato al Bulgaro.

Il problema, invece, ha grande rilevanza per Repubblica italiana, dove occorre chiarire quando un idioma possa essere ritenuto lingua e quando, invece, un dialetto.

Uno dei maggiori costituzionalisti, il prof. Alessandro Pizzorusso, specialista in materia di minoranze linguistiche ha evidenziato:

(…) l’errato presupposto che le cosiddette ‘lingue’ si differenzino in modo più accentuato e comunque diverso rispetto ai ‘dialetti” (laddove esistono lingue romanze assurte a dignità di “lingua nazionale” che si differenziano dall’italiano molto meno di quanto taluni dialetti italici si differenziano dal toscano). In realtà, ciò che conta per valutare se ci troviamo di fronte a un gruppo linguistico suscettibite di esercitare il ruolo della minoranza è che l’idioma del gruppo (…) rappresenti – anche se non in via esclusiva – il fattore di aggregazione del gruppo e di separazione di esso dal gruppo contrapposto (9).

Chiaro quindi che è soprattutto la coscienza di parlare una “lingua”, rifiutando di essere ridotti a “minus valore” dialettale, a costituire titolo per ottenere di essere compresi nell’ art. 6 della Costituzione sulla tutela delle minoranze linguistiche; tutela che non deve essere octroyée, concessa dall’alto, ma lievitare democraticamente dal basso.

Come abbiamo visto trattando la questione dal punto di vista linguistico, la discriminazione è priva di valore scientifico. Il 16 ottobre 2003, quando la Camera dei Deputati ha votato la ratifica della “Carta”, si è fatto esplicito riferimento alla Legge di tutela delle minoranze, la 452/1999. E così, le uniche “lingue regionali’ che hanno una rilevanza anche per l’Europa sono soltanto il Sardo ed il Friulano. Tutte le altre sarebbero delle “varianti” della lingua nazionale, cioè in pratica un Italiano imbastardito. Il che, oltre ad essere ingiusto e falso, suona come una condanna a morte per il prezioso patrimonio linguistico italiano, vario quanto i suoi monumenti ed il suo paesaggio, la sua flora e la sua fauna. L’ultima chance è ora rappresentata dal fatto che la ratifica della “Carta” deve essere ancora votata al Senato: in quell’occasione occorrerebbe che si facesse riferimento alle Regioni, precisando che sarà di loro competenza riconoscere valore linguistico ai propri idiomi, come già avviene in Spagna.

L’obiezione che ci viene più volte opposta è: ma quale lingua regionale tutelare? Cioè: quale “Orobico”? Il Bergamasco, il Bresciano, il Cremasco? E poi ancora, quale Bergamasco? È, questo, un problema che non riguarda soltanto noi ma tutta l’Europa. Esistono almeno cinque idiomi bretoni, sette baschi, cinque retoromanci. Il Retoromancio-ladino è parlato da meno di cinquantamila persone nella Confederazione svizzera, ma è lingua nazionale eivetica e ufficiale del Cantone dei Grigioni, si trova scritto sulla carta moneta, è oggetto di unificazione linguistica, ma al tempo stesso le sue varianti sono rispettate, nel senso che nelle scuole il primo approccio avviene nella parlata locale, mentre il Cantone usa la koiné elaborata dai linguisti. Lo stesso dicasi per I’Occitano, il Frisone, il Catalano, il Basco, il Galiziano eccetera.

A conclusione, voglio segnalare, nella bibliografia consigliata, un prezioso libro, opera dell’antropologo Daniel Nettle, e di una linguista, Suzanne Romaine, entrambi inglesi: Voci del silenzio: sulle tracce delle lingue in via di estizione, edito da Carocci. Vi si può trovare ciò che non ho avuto il tempo di illustrare qui, e cioè come si combatte l’obiezione per cui “tutte le cose devono finire” e che, se la lingua muore, è il destino delle cose. Il libro spiega la fondamentale connessione tra economia, ecologia e lingua. Battersi per una minoranza linguistica non significa essere dei romantici, ma essere economisti, sociologi; significa mettere a fuoco il problema della emarginazione delle minoranze, della colonizzazione culturale che le minoranze patiscono ad opera delle élites. Ciò avviene soprattutto nei paesi del Sud del mondo, ma pure da noi.

Non dimentichiamo che le lingue locali codificano conoscenze ed esperienze secolari. Penso ai nostri pastori, ai nostri agricoltori di montagna, al loro patrimonio culturale e alla loro capacità di vivere in un luogo in modo sostenibile, proprio come gli agricoltori autoctoni dell’Africa, dell’Asia, delle Americhe, che hanno visto le loro tecniche tradizionali soppiantate da quelle moderne, idonee magari in Europa, ma risultate fallimentari in quei paesi.

Non siamo “soltanto” dei poeti, ma persone che hanno a cuore il miglioramento delle comunità locali, delle popolazioni emarginate del mondo che, pur essendo “minoranze culturali”, sono la maggioranza della popolazione mondiale. Ancora una volta è, pertanto, una questione di giustizia e di libertà.

Gustavo Buratti Zanchi

da Atti dell’Ateneo di Scienze, Lettere ed Arti di Bergamo, Vol. LXVII – Anno Accademico 2003-2004, Bergamo, Edizioni dell’Ateneo, 2005


Note:

(1) Louis-Jean Calvet, cfr bibliografia.

(2) Pietro Pancrazi, Giotti poeta triestino, in “Corriere della sera”, 22.Xii.1937; poi in Scrittori d’oggi, serie IV, Bari 1946, pp. 216-223 e ancora In Ragguagli di Parnaso dal Carducci agli scrittori di oggi, a cura di G. Galimberti, ed. Ricciardi, Milano-Napoli, vol. III, 1967, pp. 177-183.

(3) Pinin Pacòt, Dialet o lingua? In “Ij Brandé. Arvista piemontèisa” (prima serie, anno I n. 1, mars 1927). E: Lìrica poesìa-dialet e lingua (n. 127, dzèmber 1953, p. 3); Ma nò, noi i scrivoma pa an dialet, i scrivoma an Piemontèis (n. 127, dzèmber 1951, p. 3); I soma sempre lì (n. 123, mars 1952); Ancora sla poesìa (n. 138, giugn 1952, n. 141, luj 1952); L’esempi (di F. Mistral), (n. 197, novèmber 1954).

Tali articoli sono riportati in Pinin Pacòt, Poesìe e pàgine ‘d pròsa. A cura di Renzo Gandolfo, con prefazione di Gustavo Buratti, Ca dë Studi Piemontèis, Turin, 1967.

(4) Gillo Dorfles, in “Corriere della Sera”, 15 gennaio 1994, riportato anche in “Alp”, n. 29, avril 1994.

(5) Cinzia Fiori, Lingua o dialetto: conta solo la poesia. In “Corriere della Sera”, 18 gennaio 1994.

(6) Mario Chiesa, Giovanni Tesio (a cura di), Le parole di legno. Poesia in dialetto del ‘900 italiano, “Oscar” Mondadori, Milano 1984, p.6.

(7) Cfr. “Corriere della Sera”, 21 novembre 1991; “Il Giornale”, 21 gennaio 1991; “La Repubblica”, 22 novembre 1991; “La Stampa”, 23 novembre 1991, per citare soltanto i giornali più diffusi nel nord.

(8) Gustavo Buratti, Pasolini: dialetto rivoluzionario, ne “L’Impegno” rivista dell’Istituto Storico della Resistenza nelle province di Biella e di Vercelli, a. XIV, dicembre 1994, Borgosesia, pp. 17-24. E cfr. P.P Pasolini in bibliografia.

(9) Alessandro Pizzorusso, Il pluralismo linguistico tra Stato nazionale e autonomie regionali, Pacini ed., Pisa, 1975, p. 75 n. 118.


Bibliografia

Ulderico Bernardi, Le mille culture. Comunità locali e partecipazione politica, Coines ed. Roma 1976.

Louis-Jean Calvet, Linguistique et colonialisme. Petit traité de glottophagie, Payot 1974, 1988, 2002. Ed. italiana: Linguistica e colonialismo. Piccolo trattato di glottofagia, Prefazione di Domenico Canciani, ed. Mazzotta, Milano 1977.

Peter Farb, Man’s Rise to civitisation, USA, 1972. Ed. italiana: L’ascesa dell’uomo alla civiltà, Mondadori, Milano 1972.

Claude Hagège, Halte à la mort des Langues, Odile Jacob, Paris, 2000, 2002.

Guv Héraud, L’Europe des Ethnies, préface d’Alexandre Marc, Presses d’Europe, Paris 1966. Ed. italiana: Popoli e lingue d’Europa, Ferro ed. Milano 1966.

Daniel Nettle, Suzanne Romaine, Vanishing voices: the extinction of the World’s language, Oxford University Press 2000. Ed. italiana: Le voci del silenzio. Sulle tracce delle lingue in via di estizione, Carocci ed., Roma 2001.

Pier Paolo Pasolini, Volgar’eloquio, a cura di Antonio Piromalli e Domenico Scarfoglio, Athesia, Napoli 1976.

Alessandro Pizzorusso, Il pluralismo linguistico tra stato nazionale e autonomie regionali, Pacini, Pisa 1975.

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