Piemontese: lingua nazionale

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Dialetto, dialetto, dialetto. Quest’estate, sulla stampa e in televisione, si sentiva solo più ripetere questa parola. Dialetto a scuola, chi si dice favorevole e chi invece è contrario, il politico A che lo vuole addirittura inserire nella Costituzione e al quale fa da controcanto il politico B che si dice invece assolutamente contrario, naturalmente in nome dell’«unità d’Italia». I dialetti in Italia sono più di seimila, e a questo proposito «sentiamo il parere dell’esperto»: bisognerebbe prima imparare l’italiano o le lingue straniere (ma con l’inglese ci capiamo tutti…), eppoi, quale dialetto insegnare? Va bene che “è una ricchezza”, ma non esageriamo: bisogna parlarlo in casa o, al più, insegnarlo a scuola solo in via facoltativa. Posizione questa, a quanto pare, fatta propria dal Presidente della Regione Piemonte Mercedes Bresso (vedi La Repubblica del 14 agosto). Insomma, come al solito in Italia, un gran casino.

Questi battibecchi estivi montati ad arte, in realtà, servono solamente a riempire le pagine di giornali che non hanno niente da dire e a fare la campagna elettorale ai partiti politici da cui sono direttamente o indirettamente finanziati (la sola Busiarda riceve ogni anno dallo Stato più di sette milioni di Euro). La lingua e l’identità piemontesi finiscono prese in mezzo, usate come condimenti di campagne mediatiche e come strumento di provocazione politica. Come al solito, non viene presa nessuna decisione né intrapresa alcuna azione concreta in loro favore. Anzi: certi rappresentanti dell’intellighenzia fanno a gara a sputare addosso ai Piemontesi, la cui lingua viene artatamente fatta annegare nel mare magnum dei “dialetti”. E allora? Allora ci pare che, almeno, si debbano fissare alcuni punti fermi per risistemare le cose nella giusta prospettiva e per fare un po’ di chiarezza.

1. Il Piemontese non è un dialetto, o una variante, dell’italiano. Quindi, l’affermare, come è stato fatto, che in Italia si parlano oltre seimila dialetti non deve che lasciarci indifferenti: siamo contenti per gli italiani (e se fossero furbi e intelligenti penserebbero a mantenerli e a promuoverli). Noi piemontesi, che piaccia o meno, abbiamo la nostra lingua nazionale codificata da oltre due secoli e questo ci pone su tutt’altro piano dei dialetti italiani. Non dobbiamo inventarci nessuna “unità” campata in aria, noi.

2. Tutte le parlate sono portatrici di valori e di cultura e tutte hanno diritto alla salvaguardia e, prima ancora, al rispetto. Ma non tutte hanno raggiunto la stessa elaborazione, né i rispettivi parlanti hanno la medesima coscienza: non si può pensare di applicare la medesima tutela al piemontese e al romanesco, a meno che ciò non sia una scusa per negare forme di tutela e promozione avanzate a minoranze linguistiche molto consistenti come sono, appunto, i piemontesi.

3. Il piemontese non solo si potrebbe insegnare a scuola, ma il farlo dovrebbe essere obbligatorio.
L’Italia non rispetta i trattati internazionali a riguardo (Carta europea delle lingue regionali e minoritarie, Convenzione quadro per la protezione delle minoranze nazionali, ecc.), dimostrandosi anche in questo caso un paese poco democratico e arretrato. L’insegnamento, poi, dovrebbe essere obbligatorio e il piemontese dovrebbe essere usato come lingua veicolare (vale a dire che tutte le materie dovrebbero essere insegnate in piemontese): altro che opporvicisi “con tutti i mezzi”, come dice la Bresso! Questo è un nostro diritto inalienabile e un preciso dovere dello Stato nei nostri confronti: non pensino di tenerci a bagnomaria con le balle dell’«insegnamento facoltativo» – e qui casca l’asino. La realtà è che le prime scuole italiane in Piemonte sorsero soltanto dopo il 1830 per volontà di Carlo Alberto, e che fino al secondo dopoguerra inoltrato da noi l’italiano era una lingua straniera  e poco conosciuta.

4. I piemontesi costituiscono un popolo ben definito che vede conculcati i propri diritti, con una lingua autonoma completamente elaborata che non ha mai avuto nel toscano-italiano il suo punto di riferimento. La lingua piemontese deve avere la stessa dignità e lo stesso valore legale dell’italiano, come già avviene per il tedesco in Sud Tirolo e per il francese in Valle d’Aosta. Altro che “quale dialetto insegnare”.

5. Affermare che bisognerebbe insegnare l’italiano prima del piemontese o che questo toglierebbe spazio all’apprendimento dell’inglese, in una visione puramente utilitaristica della realtà, non fa che far emergere la completa malafede di certuni. Ribaltiamo invece il ragionamento e diciamo chiaramente e senza paura quella che è la verità, e cioè che in quest’ottica è l’italiano che non serve a nulla (come lingua di comunicazione non vale una cicca bucata: vi può forse venire utile a Little Italy) e che, piuttosto, è esso che sottrae spazi e preclude possibilità ai nostri figli, impedendo loro di apprendere le grandi lingue di comunicazione, come l’inglese. Quindi, o c’è il rispetto e piemontese e italiano vengono trattati alla pari e sullo stesso piano – assicurando al piemontese la medesima dignità e  garantendogli i medesimi spazi dell’italiano, o tanto vale passare direttamente all’inglese (che oggi è l’unica lingua “che serve”), anche nell’insegnamento scolastico. L’italiano, infatti, mantiene intatto il suo valore culturale, ma ciò vale anche per il piemontese, a meno che non si voglia presupporre un’identità lingua-stato, con il che il discorso scivolerebbe su altri piani. Quindi delle due l’una: o si assume come base l’importanza intrinseca delle due lingue, e allora il piemontese deve essere messo sullo stesso piano dell’italiano, o ci si pone in una prospettiva “mercantilista” – dove tutta l’importanza è assunta dal “farsi capire” – e allora tanto vale utilizzare l’inglese, ché a questo punto l’italiano non vale più nulla, anzi è d’intralcio.

6. L’ ”intellighenzia” italiana vuole imbrogliarci, cercando di confonderci e di dividerci, di farci passare per quello che non siamo, di ridicolizzarci e di mancarci di rispetto, negandoci ogni spazio di libertà. A questo scopo cerca di metterci in soggezione psicologica, facendoci passare per dei giandoja bonòm, utilizzando a questo scopo dei “falsi amici” (è classico il giornalista che si dichiara “purosangue”, “tipicamente piemontese” e che non perde mai occasione di sputarci addosso). In realtà, gli italiani vogliono instillarci una sindrome di Stoccolma nei loro confronti, a partire dalla loro lingua, che ci vogliono far credere per noi indispensabile. In questo modo ogni possibile obiezione alla visione del mondo e agli schemi di pensiero che vogliono imporci viene stroncata sul nascere, e le campagne mediatiche come quella di quest’estate hanno il preciso scopo di “saturare” l’informazione di concetti che devono poi essere ritenuti per veri dalla popolazione quasi per riflesso incondizionato («se lo dicono tutti dovrà pur essere vero…»: in questo modo, quando si parlerà di piemontese, l’uomo della strada dovrà associarlo automaticamente e inconsciamente, in modo naturale, al dialetto, al passato e al folklore).

E allora?

Allora, ci sembra che “uomo avvisato, mezzo salvato”, che una volta capite quelle che sono le condizioni al contorno della questione della lingua piemontese, individuati quali sono i nostri nemici e compresi i sistemi che questi utilizzano per impedirci di raggiungere la nostra libertà (che passa primariamente ed essenzialmente attraverso l’acquisizione consapevole della coscienza linguistica nazionale), i piemontesi siano già a metà dell’opera di emancipazione che dovranno portare a compimento nei prossimi anni. Tutto il resto non sarà che una conseguenza di queste premesse e dell’aver compreso quali sono le reali possibilità e potenzialità del nostro popolo. I fatti di questi mesi non fanno che confermarlo.

GIOVENTURA PIEMONTÈISA, n. 4/2009

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