Parte dal Friuli l’attacco alle lingue minoritarie

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Lo Stato italiano vuole far morire le minoranze impedendo l’uso veicolare e l’insegnamento scolastico della lingua

La Corte Costituzionale, con sentenza n. 159/2009  del 22 maggio ha azzerato la Legge friulana per le minoranze linguistiche. Viene così bloccata la possibilità di insegnare il friulano a scuola.

La sentenza afferma chiaramente di volere evitare che le lingue minoritarie «possano essere intese come alternative alla lingua italiana» e respinge il diritto di imprimere alla lingua friulana il carattere di “lingua veicolare”.

Si tratta di un fatto di una gravità inaudita, senza precedenti in materia nella storia della Repubblica italiana, che deve fare riflettere tutti coloro che si impegnano per la promozione delle lingue naturali.

La Legge in questione era stata approvata dal Consiglio della Regione Autonoma Friuli-Venezia Giulia il 18.12.2007 e subito, all’inizio del 2008, il Governo italiano l’aveva impugnata per dubbi di legittimità costituzionale.

La nuova legge, fra l’altro, prevedeva il silenzio-assenso per l’insegnamento del friulano a scuola, con la garanzia di almeno un’ora settimanale, e inoltre la possibilità di impiegare la toponomastica unicamente nella lingua locale.

Sì alle lingue minoritarie, ma solo per gli antichi mestieri
La “lingua veicolare” è quella che funge da mezzo di comunicazione anche tra parlanti di cui non è la lingua madre (cfr. G. Devoto, G.C. Oli, Dizionario della lingua italiana). Ad esempio, gli immigrati possono comunicare in italiano pur non essendo questa la loro madrelingua. In Friuli, ma anche in Piemonte e altrove, vi sono molti immigrati che comunicano nelle lingue locali: è un nostro preciso dovere mettere le nostre lingue a disposizione di chi desidera integrarsi e vivere nella nostra società. La Regione Friuli-Venezia Giulia ha specificato che l’«apprendimento veicolare integrato delle lingue riflette l’obiettivo di insegnare la lingua non “in astratto” e come vuota struttura linguistica, ma in concreto, “veicolando” con essa determinati contenuti.

In questo senso, dunque, la lingua friulana dovrebbe essere insegnata “veicolando” al tempo stesso altri contenuti didattici, in modo tale che lo studente apprenda contemporaneamente la lingua e la materia insegnata con la lingua stessa».

Questo lo Stato italiano non vuole e non può accettarlo: la lingua locale verrebbe così a trovarsi – come invece sarebbe giusto – sullo stesso piano della lingua di Stato.

Si prevedeva l’insegnamento della lingua friulana per almeno un’ora la settimana e che l’insegnamento fosse basato sull’apprendimento veicolare integrato delle lingue; provvedimento bocciato perché «contrastando con i principi dell’autonomia scolastica», violerebbe l’art. 117 III comma della Costituzione (sic!), che esclude dalla competenza concorrente regionale «l’autonomia delle istituzioni scolastiche». Si fa così finta di “dimenticare” che tale autonomia è solo di tipo funzionale e organizzativo e non normativo: altrimenti lo stesso ragionamento potrebbe essere applicato a tutte le materie, come la matematica e l’italiano. Silvana Fachin Schiavi, docente all’Università di Udine: «Stiamo tornando indietro di cent’anni. Sulla scuola, la sentenza applica una falsa interpretazione dell’autonomia scolastica. Ad essa compete l’organizzazione del curriculum, ma non può mettere in discussione i riferimenti normativi».

In poche parole, la Regione non deve metterci becco. In spregio alla volontà manifestata ogni anno dal 60% delle famiglie friulane di vedere insegnata la lingua friulana a scuola, nonché dei trattati europei anche sottoscritti dall’Italia.

Gli Italiani non accettano le differenze
A loro va bene l’inglese in quanto lingua internazionale, esterna: per loro le differenze interne sono inaccettabili. Il vero problema che è emerso con questa sentenza e con il successivo ricorso alla Corte Costituzionale contro il piemontese, è che lo Stato italiano non può ammettere la presenza di altre lingue ufficiali accanto all’italiano. È la stessa Corte Costituzionale che ce lo ricorda: «la giurisprudenza di questa Corte, [ha] da tempo affermato che “la Costituzione conferma per implicito che il nostro sistema riconosce l’italiano come unica lingua ufficiale” (sentenza n. 28 del 1982)». Alla faccia dei diritti umani. «I diritti linguistici sono un aspetto dei diritti dell’uomo e il loro mancato rispetto può avere ripercussioni molto negative sulla dignità di una persona. Il rischio di conflitto aumenta proporzionalmente con il rifiuto dell’identità culturale di un popolo e con la mancanza di rispetto per le diversità culturali. Gli esperti sono concordi nell’affermare che “relazioni amichevoli tra i popoli, come la pace, la giustizia, la stabilità e la democrazia, esigono che l’identità linguistica delle minoranze nazionali sia protetta e che siano assicurate le condizioni per la promozione dell’identità» (UE, Argumentaire sur les langues moins répandues).

Questo atto (col quale lo Stato italiano è venuto allo scoperto – carta canta) conculca la nostra libertà e i nostri diritti fondamentali.

“No, tu no”: a Roma decidono come dobbiamo parlare
La Convenzione-quadro per la protezione delle minoranze nazionali (Strasburgo 1995), sottoscritta anche dall’Italia (con Legge 302/97), afferma che «la protezione delle minoranze nazionali e dei diritti e delle libertà delle persone appartenenti a queste minoranze è parte integrante della protezione internazionale dei diritti dell’uomo e in quanto tale rientra nella portata della cooperazione internazionale». Ma secondo la Corte Costituzionale «il legislatore statale appare titolare di un proprio potere di individuazione delle lingue minoritarie protette, delle modalità di determinazione degli elementi identificativi di una minoranza linguistica da tutelare, nonché degli istituti che caratterizzano questa tutela […] E ciò al di là della ineludibile tutela della lingua italiana». In parole povere, decidono da Roma quali lingue si possano e si debbano parlare, quali siano le minoranze linguistiche e, se c’è, quale dev’essere la loro tutela. In attesa magari della loro sparizione definitiva: non dimentichiamo mai che la prima legge italiana a tutela di queste minoranze, la 482/99, è stata approvata a cinquant’anni dalla promulgazione della Costituzione.

Minoranze linguistiche incostituzionali?
Il vero problema pare essere la posizione delle minoranze linguistiche e la malsopportazione delle stesse da parte dello Stato italiano: è la stessa Corte Costituzionale che ce lo rivela: «la consacrazione, nell’art. 1, comma 1, della legge n. 482 del 1999, della lingua italiana quale “lingua ufficiale della Repubblica” non ha evidentemente solo una funzione formale, ma funge da criterio interpretativo generale delle diverse disposizioni che prevedono l’uso delle lingue minoritarie, evitando che esse possano essere intese come alternative alla lingua italiana […]».

Dal fatto che l’italiano sia l’unica lingua ufficiale ammessa nella Repubblica discende che se una popolazione vuole conservare la propria lingua e la propria cultura e affrancarla dalla subordinazione in cui la tiene la presenza invasiva della lingua di Stato, deve necessariamente rivolgersi a punti di riferimento estranei allo Stato italiano e alla sua Costituzione (che sono a questo punto, anche nero su bianco, avversi e contrari alle minoranze etniche e alle lingue proprie del territorio)?

La “legge-foglia-di-fico” 482/99
Avevamo ragione noi dieci anni fa sulla Legge 482, che ha chiuso la stalla delle minoranze linguistiche quando i parlanti erano ormai scappati da cinquant’anni. Non era che una foglia di fico dietro la quale si nasconde lo Stato italiano per giustificarsi e far credere che tuteli queste espressioni di civiltà, mentre, in realtà, negli ultimi centocinquant’anni ha fatto di tutto per farle morire.

L’unico modo per tutelare e promuovere le nostre lingue è quello di renderle vive e vitali come lingue veicolari, di far loro guadagnare nuovi àmbiti di utilizzo (Guiu Sobiela-Caanitz); se ciò viene impedito esse sono destinate alla museificazione, all’ingessamento, ad essere relegate in settori chiusi, nella descrizione di un passato irrimediabilmente perduto e quindi a sparire, a non essere più parlate perché “inutili”, non veicolari, appunto. È questo esattamente l’obiettivo perseguito con lucidità e coerenza dallo Stato italiano fin dalla sua fondazione.

William Cisilino, presidente dell’Istitû ladin-furlan Pre Checo Placerean: «Prima il Governo ha ridotto a un decimo i fondi della legge statale di tutela, rendendola una scatola vuota, ora la Corte ci dice che non ammette un’ora di friulano nelle scuole per chi ne fa domanda. Lo riteniamo grave, per questo abbiamo già pensato di rivolgerci al Consiglio d’Europa».

Il Piemonte è ancora più indietro, la sua lingua è addirittura stata arbitrariamente esclusa dalla legge 482, senza che nessuno in dieci anni muovesse un dito, mentre i “rappresentanti” delle altre lingue minoritarie del Piemonte, alla faccia della solidarietà e della lungimiranza, danzavano al suono della ghironda senza rendersi conto di essere sulla prua del Titanic, con i loro parlanti che stavano affogando: i dati IRES lo dimostrano con chiarezza.

Questa decisione della Corte Costituzionale potrebbe essere la fine della legge 482/99 in quanto non soltanto questa legge è la pietra d’angolo sulla quale è costruita la sentenza in questione, ma fornisce della stessa 482 un’interpretazione restrittiva e in negativo. In altre parole, la 482 è stata usata come clava da dare in testa alle minoranze linguistiche, funzione che, forse, era prevista dal legislatore fin dalla sua promulgazione.

Il Teatro Italia
La legge friulana è stata approvata da una maggioranza di “sinistra”; il ricorso alla Corte Costituzionale è stato l’ultimo atto del Governo Prodi (di “sinistra”). Oggi la “destra” plaude alla decisione della Corte Costituzionale. Qualcuno da “sinistra” si oppone, ma fu proprio la “sinistra” al governo ad approvare la discriminatoria e strumentale legge 482 che escludeva il piemontese. E alla Regione Piemonte l’abolizione dell’unica legge che tutelava il piemontese è stata gioiosamente approvata all’unanimità da “destra” e “sinistra”; in questo acquario sguazza la Lega, proposta dal sistema come unico “controcanto” su questi argomenti (e infatti ferocemente ostile a qualunque iniziativa identitaria che non inalberi il Sole delle Alpi). Il suo scopo è “marchiare” il dissenso, indirizzare il consenso e vanificare le proposte pratiche, riducendole a spot elettorale.

Sulle questioni di sostanza c’è un accordo di fondo per l’eutanasia delle lingue minoritarie e nazionali; qui più che mai la distinzione ideologica è soltanto un gioco delle parti.

In conclusione
Il valore di questa sentenza è fondamentale e (purtroppo), se non ci sarà una forte presa di coscienza da parte dei politici piemontesi più illuminati, sposta necessariamente la rivendicazione linguistica su un terreno autonomista, in quanto pone come presupposto della tutela di una lingua il raggiungimento di forme avanzate e stabili di autogoverno, così come già avviene nella Regione Autonoma della Valle d’Aosta, dove vige la parificazione  del francese con l’italiano (Titolo VI dello Statuto di Autonomia).

Con tale sentenza lo Stato italiano si è chiaramente, ufficialmente e definitivamente dichiarato intollerante verso le diversità culturali e linguistiche dei popoli che vivono sul territorio della Repubblica. Questo atto va ben al di là dei confini del Friuli-Venezia Giulia e il fatto che l’attuale Governo abbia impugnato la legge sul piemontese lo dimostra: così come dieci anni fa le minoranze riconosciute dalla legge 482 avrebbero dovuto essere più lungimiranti, oggi noi non dobbiamo credere che la sentenza sia soltanto un problema dei Friulani. Al contrario è la spia della reale volontà dell’Italia, che va al di là delle contingenze politiche: se vengono trattati così 700.000 Friulani, la presenza di una minoranza come quella piemontese (oltre 3 milioni) è la meno tollerata di tutte, tant’è che non le si riconosce nemmeno il diritto all’esistenza.

Per salvare l’identità di un popolo è necessario salvarne la lingua (o le lingue, nel caso dei Piemontesi – e degli Svizzeri): è quindi necessario parlarla, scriverla, insegnarla a scuola, utilizzarla come “lingua veicolare”, liberarla dal ghetto del passatismo e dell’estemporaneità. L’Italia non vuole questo, l’Italia vuole assimilarci, standardizzarci, toglierci l’identità, farci sparire, confonderci, dividerci, imbrogliarci. Come diceva Silvius Magnago, leader storico della Südtiroler Volkspartei, «per voi Italiani integrazione significa assimilazione».

Il problema è tutto qui: i Piemontesi, che sono una minoranza nazionale (non italiana), sono a rischio di assimilazione con tutti i crismi delle leggi e delle costituzioni. Ciò vale per tutte le minoranze nazionali, le lingue minoritarie e le parlate locali.

La nostra libertà, che comincia dalla nostra lingua, è solo nelle nostre mani.

Carlo Comoli, Robert J.M. Novero
Gioventura Piemontèisa, n.4/2009

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