Pietro Micca parlava in piemontese e probabilmente non pronunciò una parola in italiano in tutta la sua vita. Nonostante ciò, nel 1864 il Comune di Torino proibì che, per festeggiare l’eroe che salvò Torino dall’assedio del 1706, si intonasse un inno in lingua piemontese.
Pietro Micca nel punto di dar fuoco alla mina, Andrea Gastaldi, 1858 – GAM Torino
La vicenda può sembrare surreale, ma è avvenuta davvero, in occasione dell’inaugurazione del monumento tra via Cernaia e l’attuale corso Galileo Ferraris; per giunta, il divieto arrivò per decreto ministeriale. La notizia si apprende dalla filo-governativa Gazzetta di Torino del 30 aprile 1864:
«Abbiamo già fatto cenno di un inno in dialetto piemontese composto per la festa dell’inaugurazione del monumento di Pietro Micca; un veto del ministero della guerra interdisse la cantata dell’inno in questa circostanza; i motivi di questo veto sono tali che ce ne fanno apprezzare la convenienza e sono un elogio pel ministro della guerra; perocchè non voleva che quell’inno in dialetto (corsivo loro!) sembrasse togliere al Pietro Micca il carattere di eroe italiano e non esclusivamente piemontese: perché inoltre le tradizioni dell’esercito piemontese e le glorie di quelle fossero riguardate come patrimonio e gloria dell’esercito dell’Italia».
Il giornale accenna ad un articolo precedente; effettivamente la polemica infuriava da qualche giorno, tanto da permetterci di ricostruire la vicenda. A comporre l’inno fu Luigi Rocca (1812-1898), avvocato appassionato di storia e tradizioni piemontesi. La sua famiglia era originaria di Neive e lui fu sempre molto legato all’Albese, tanto da diventarne consigliere ed amministratore. Fu tra i fondatori del Circolo degli Artisti di Torino, con importanti incarichi nelle Esposizioni del 1880 e del 1884. Insomma, non era un personaggio da poco; al governo tuttavia non interessavano le generalità dell’autore; importava più che altro che si impedisse la rappresentazione di un inno in piemontese.
Appare chiaro, in sostanza, che già nei primissimi anni dell’unità italiana fosse imposto un indirizzo anti-regionale (ed anti-piemontese in primis) con l’intento di omologare le regioni italiane cancellandone le peculiarità, a vantaggio di un’appartenenza ad una nuova patria artificiale, ancora tutta da costruire. In Piemonte era molto forte il sentimento di appartenenza ad una “piccola patria” piemontese; e ciò era facilmente comprensibile, perché erano stati i piemontesi a fare l’Italia. Tale sentimento fu completamente travisato dagli amministratori della cosa pubblica, che fecero di tutto – mediante la propaganda e le gazzette – per convincere i piemontesi ad abbandonare i loro retaggi storici e culturali vecchi di secoli.
A sovrintendere a questa campagna furono i ministri Minghetti, Pepoli, Spaventa e Peruzzi (toscani e napoletani) ma anche piemontesi come Alessandro Della Rovere, monferrino di casale, marchese di antica famiglia e ministro della Guerra in tre governi. Fu lui ad ordinare che l’inno di Luigi Rocca non venisse intonato.
Con ciò, non si può non notare la cecità degli amministratori del tempo: abbacinati dalla volontà di rendere italiani a tutti i costi popoli per secoli diversi e divisi, finirono per combattere le lingue regionali al posto di valorizzarle come bene comune. È anche da questa visione distorta dell’Italia post-unitaria che deriva l’attuale diffidenza verso le lingue regionali di tutta Italia, dispregiativamente definite dialetti benché i linguisti abbiano da tempo riconosciuto il loro status di lingue a tutti gli effetti.
Di Giorgio Enrico Cavallo – da piemonteis.org