Pietro Micca “italiano”?

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Pietro Micca? Fu un eroe “italiano”, altro che piemontese. Poco importa che nel 1706 l’Italia fosse davvero “un’espressione geografica” e che la patria in pericolo era il piccolo ducato sabaudo. Tutto ciò, non importava al neo-costituito governo italiano, né tantomeno interessava al ministro della Guerra, che in occasione dell’annunciata inaugurazione del monumento a Pietro Micca in via Cernaia, si distinse per un’azione che oggi denota la sua ristretta lungimiranza. Il ministro in questione era Alessandro Della Rovere, monferrino di Casale, marchese di antica famiglia e ministro della Guerra in tre governi. Uno che, almeno, avrebbe dovuto essere grato al Piemonte per il suo ruolo di nazione che “diede il la” al processo unitario, portandola in palmo di mano. Come no. Della Rovere e tutti gli altri piemontesi che sostennero il processo di unificazione nazionale, avevano un solo obiettivo: fondere il Piemonte nell’Italia, riuscendo in tal modo a liberarsi per sempre di tutta quella provincialità subalpina. Ora, il Piemonte era parte integrante di una nazione più grande, più prospera, più ricca di cultura e di storia. Inutile dire che già allora il Piemonte era la nazione d’Italia più ricca economicamente, e che in fatto di patrimonio culturale i brillanti politici risorgimentali avrebbero semplicemente potuto fare ciò che oggi va tanto di moda: “rivalutare”. Rivalutare, cioè, il patrimonio che ci hanno lasciato i nostri sovrani, da Arduino ai Savoia, proponendolo come modello e dandogli finalmente il giusto valore. 150 anni dopo, siamo ancora lì: il nostro patrimonio cade a pezzi, pochi conoscono i gioielli del nostro territorio e nessuno conosce gli uomini che fecero grande la cultura piemontese.

All’epoca qualcuno c’era che tentava di difendere la cultura piemontese. Uomini come il brillante Luigi Rocca, autore di un inno a Pietro Micca in lingua piemontese. Apriti cielo! Qualche portaborse di allora deve aver passato il testo dell’inno al ministro, il quale deve aver tirato giù i santi del cielo. Ma come, noi gli abbiamo fatto l’Italia e quei montanari provinciali usano ancora il piemontese? Non sia mai. Facciamo così: l’inno non si canterà, né si leggerà. Niente di niente, se non si userà la lingua italiana.

Vi fa sorridere? È invece l’avvisaglia di quella politica fortemente discriminatoria nei confronti del piemontese portata avanti dai governi italiani, uno dopo l’altro, specialmente quelli guidati… dai piemontesi. Che come sempre trovano occasione per distinguersi. Ebbene, questa vicenda venne imposta manu militari ai torinesi di allora – ah, siamo nel 1864, l’anno dei moti di piazza Castello e piazza San Carlo… altra medaglia per l’Italia – i quali, come sempre, ubbidirono senza fiatare. I giornali, ovviamente, erano servi allora come oggi: gustatevi insieme a noi questo breve articolo de La Gazzetta di Torino del 30 aprile 1864.

«Abbiamo già fatto cenno di un inno in dialetto piemontese composto per la festa dell’inaugurazione del monumento di Pietro Micca; un veto del ministero della guerra interdisse la cantata dell’inno in questa circostanza; i motivi di questo veto sono tali che ce ne fanno apprezzare la convenienza e sono un elogio pel ministro della guerra; perocchè non voleva che quell’inno in dialetto (corsivo loro!) sembrasse togliere al Pietro Micca il carattere di ero italiano e non esclusivamente piemontese: perché inoltre le tradizioni dell’esercito piemontese e le glorie di quelle fossero riguardate come patrimonio e gloria dell’esercito dell’Italia».

Noi sappiamo che oggi, un secolo e mezzo dopo, la situazione è sempre la stessa: il piemontese è schernito, sbeffeggiato, sbertucciato dagli stessi piemontesi (che in tal modo si sentono più intelligenti e molto italiani). La storia locale del Piemonte è inserita nella storia d’Italia, benché siano due storie completamente diverse fino agli anni del triste “risorgimento”. Ed infine, i giornali, scritti e diretti (quando va bene) dagli stessi piemontesi di cui sopra, svolgono il loro ruolo di informazione denigrando la lingua piemontese, declassificata a ruolo di miserabile dialetto da estirpare per il bene d’Italia. L’unico rammarico? A “fare l’Italia” furono i nostri nonni, ringraziati a calci nel sedere. Erano guidati da degli incapaci, che persero tre guerre di indipendenza riuscendo ad unificare questo sfortunato paese. Si fossero rivoltati contro quegli incapaci, forse oggi la storia sarebbe diversa. Ma la storia, ahinoi, non si fa con i se e con i ma.

 

(fòto Gianni Galliano)

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