Non mi ricordo di aver visto « Paggio » di cattivo umore o preoccupato, come ben di rado ho potuto notare che avesse, sia pur temporaneamente, abbandonato la lobbia, posata in permanenza sui non folti capelli, o smesso di fumare l’eterna « Virginia », ben stretta fra le labbra sottili.
Era l’immagine viva del « cuor contento », chiuso in un suo mondo che non oltrepassava i confini della sua Torino. Se gli avessero offerto la permanenza di un mese in un’altra città, avrebbe detto ─ come Ferravilla ─ « interrogato, il morto non risponde ». Era il più torinese dei Torinesi del suo tempo, ma non poteva concepire un panorama diverso da quello della collina sulla quale sovente peregrinava. Ed è logico che nelle sue poesie non si parli che di Torino e della sua gente, nello spirito di Alberto Viriglio che considerava il suo maestro e la cui parentela fra I’uno e l’altro è riconoscibile nella forma, nel piglio, nel linguaggio, ma non del tutto nell’ispirazione, in quanto Viriglio scrisse si versi birichini, ma altri venati di profonda amarezza, di desolata malinconia. E dalla malinconia « Paggio » faceva il possibile per tenersi lontano.
L’aspetto baldanzoso e l’aria spavalda, per chi non lo conosceva, non erano che uno schermo dietro il quale si celava una delicata, profonda tenerezza interiore che lasciava affiorare solo a tratti nei suoi versi, quasi timoroso di palesare il suo vero essere.
Per undici anni, dal 1906 aI 1917, tenne la direzione de « ‘L Birichin » che, sotto la sua guida, visse uno dei periodi più fortunati. Alla nascita de « ‘L Caval ‘d brôns », si schierò immediatamente a fianco di Alfredo Chin, che mai ebbe collaboratore più preciso , ma additittura pignolo nella grafia di base virigliana elaborata secondo un suo particolare concetto, grafia di cui fu sempre accanito sostenitore, tanto da costringere Carlin, mentre disegnava la testata, a mettere la tilde sulla « n » di « brôns ». Fu poi mio padre a farla sparire con un colpo di sgorbia, coprendo l’accaduto sotto il pietoso velo di un disgraziato incidente. E « Paggio », dopo aver mugugnato per parecchi giorni, si rassegnò, specie quando Chin gli disse che, se voleva, poteva far rifare il cliché, ma a sue spese. E da quell’orecchio Viale non ci sentiva molto, anche se godeva nel dimostrare che poteva essere, ed era, qualcosa di più di un modesto travet.
Gli incontri periodici con Neti Demaria, l’amico suo più caro, al quale avrebbe lasciato la sua biblioteca di libri piemontesi, costituivano un vero e proprio show: era un ininterotto fuoco di fila di giochi di parole, una girandola di « calembours », una sventagliata di freddure, un continuo fiorire di battute e di doppi sensi che Neti respingeva quando « Paggio » talvolta varcava i confini dell’interpretazione maliziosa.
Collaborò al « Caval » per oltre quarant’anni ed i suoi sonetti comparvero sempre in prima pagina quale « poeta della Famija » come lo definì Gigi Michelotti. E quasi sempre affiorava nei suoi versi l’arguzia torinese, la trovata, la chiusa ad effetto, il tutto in una rara perfezione stilistica. Viale era maestro nell’arte non certo facile di comporre il sonetto, incastonando a volte certi sostantivi, certi aggettivi un po’ ricercati ed ai margini della comune parlata.
Oreste Fasolo, nella gustosa prefazione a Rime d’amôr (Giani, 1905) lo inquadra: « Quello che io presento è un “Paggio Fernando” torinese di nascita e di temperamento e figlio autentico di Porta Palazzo; quindi sentimentale… sì e no, “brav fiolass”, ottimista in filosofia…. non esclusivista in fatto di ragazze belle, salvo a contraddirsi tosto ─ con quella bella inconseguenza che è la virtù migliore dei poeti ─ nella pagina successiva ed apparire in atteggiamento sentimentale di vero ed autentico “Paggio Fernando”, a volte con passaggi quasi sempre immediati dalla nota sentimentale alla nota verista: un po’ Ia caratteristica di tutta la poesia di “Paggio Fernando” ».
Nel 1930 vede la luce Ariëte turineise, volumetto che dovrebbe trovar posto, almeno in copia anastatica, tra i libri che son cari a quanti vivono nel clima che a lui era familiare. Godeva nell’alzarsi presto e « l’aria sutila e frësca dla matin », che « a spantia ‘n sôfi përfumà ‘d gasija » lo inebriava. Ai primi tepori il cuore gli balzava in gola, tanto da farlo esclamare: « La primavera a canta daspërtut ». Amava le cose delicate, le manine bianche, quasi trasparenti, candide, morbide, « vlutà », che sono tutto e non sembrano niente. Trasparente era la sua anima, come candido era il suo cuore.
Teresio Mittone
(1923-1975 – 50 anni de ‘l Caval ‘d brôns, Famija Turinèisa, Turin 1973)
La blëssa dl’aso
Paggio Fernando
Fin ch’a l’é giovo e arbiciolù ‘n sla piòta,
l’aso a l’é bel e a pias a la folìa,
le sòme a-j guardo adòss con simpatìa,
la gent, s’a peul riveje, a lo papòta…
Ma quand che j’ani a-j pèiso ‘n sla schinòta,
l’ha mach pì la somà për companìa…
L’aso ch’a lassa ‘l pèil tacà la strìa
l’é ‘n pòvr patào ch’a viv come n’idiòta.
Nojàutri i soma istess, sensa rimpròcc…
le fijëtte ch’incontroma ‘n sël passage
an guardo e an seulio fin ch’a va ‘l biròcc…
Ma pen-a ch’a s’incanta l’ingranage
dla gioventù goliarda e benedeta,
la fomna an sara ij fren… e adieu Nineta!