Due giorni di festa alla basilica per ricordare i voti del duca Vittorio Amedeo II
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Quando, sul finire della giornata del 7 settembre 1706, il duca Vittorio Amedeo II e il principe Eugenio entrarono a Torino, finalmente liberata dopo 117 giorni di assedio, furono accolti dal popolo in giubilo: la capitale degli Stati di Savoia aveva vinto l’assedio francese. A distanza di più di trecento anni, si è svolta a Superga la “Festa del Piemonte”, per ricordare il sacrificio di tanti eroi che hanno dato la loro vita per liberare la città.
Erano piemontesi, austriaci, francesi, spagnoli: in migliaia, davanti alle mura di Torino: i loro corpi riposarono per oltre un secolo nelle campagne di Lucento e di Madonna di Campagna, prima di essere parzialmente accolti nella nuova chiesa della Salute, nel borgo Vittoria; uno di essi, simbolico “milite ignoto”, fu invece tumulato a Superga, dove ancor oggi riposa. Dunque, in ricordo della vittoria e di questi migliaia di giovani combattenti si è svolta una due giorni di preghiera e di festa. Santo rosario in lingua piemontese, Santa Messa in piemontese, italiano e francese; quindi rievocazioni storiche, recite e tante danze folk: la “Festa dël Piemont” è stata un momento di grande e sentita partecipazione, con delegazioni arrivate apposta anche da Nizza e Savoia. Una due giorni che, come è stato più volte ricordato dagli organizzatori, era pensata per «non dimenticare il nostro passato, e per vivere più consapevolmente il futuro».
Elemento centrale della manifestazione, che in sé racchiudeva il ricordo dei caduti e la stessa festa per la grande vittoria, è stato però il “rinnovo dei voti” fatto dal duca Vittorio Amedeo davanti ad una antica cappellina esistente sul bricco di Superga: egli promise alla Vergine che, in caso di vittoria, avrebbe edificato su quella collina una grande basilica. E così fu. I “voti”, in letti in piemontese e, novità dell’anno, anche in walser, hanno passato in rassegna le tante criticità del mondo odierno: davanti alla guerra, al fondamentalismo islamico, alle migrazioni, parlare di identità locale sembra spaesante, quasi riduttivo; eppure, senza radici non c’è futuro.