1. L’antagonismo linguistico dei nostri tempi
Stiamo vivendo un’epoca di cambiamenti conflittuali. La situazione delle lingue del mondo subisce dei profondi rivolgimenti e si trasforma in modo accelerato. Ciò che più colpisce a prima vista è il fatto che la diversità linguistica dell’umanità si stia sciogliendo, che la molteplicità delle lingue si stia impoverendo. Più che mai nella storia, le lingue cosiddette “minoritarie” sono minacciate da un numero limitato di lingue forti, cioè le lingue nazionali e internazionali che ancora rimangono e che per di più prosperano e si vigoreggiano a detrimento di tante altre lingue meno diffuse. A più lungo termine, anche queste lingue forti non sembrano fuori pericolo. L’ascensione dell’inglese, che attualmente risulta essere l’unica lingua universale, pare invincibile. Tuttavia, con questo aumento di unità sempre più estese, con l’avvento di lingue sempre più potenti, con la dominazione sempre più opprimente di un’unica fra di loro, assistiamo allo stesso tempo a una notevole ondata di lingue regionali e locali, a una consapevolezza generale dei pericoli associati all’uniformazione del linguaggio, alla ricomparsa massiccia di rivendicazioni identitarie radicate in un ambiente immediato e ancestrale. L’attuale situazione linguistica è caratterizzata da due tendenze divergenti, dal conflitto esistente tra queste due forze opposte, da un antagonismo fondamentale. Viene opposta alla globalizzazione galoppante (per lo meno da alcuni tra di noi) una resistenza per così dire “particolarizzante”. Di fronte all’invasione di una civilizzazione mondiale, sempre più superficiale e monotona, alcuni tra di noi difendono con risolutezza il diritto alla differenza, questo diritto inalienabile e fondamentale di per sé. Durante questi ultimi decenni abbiamo osservato il progresso di una monocultura a livello mondiale e contemporaneamente la promozione mai vissuta finora dei particolarismi, alla rinascenza delle culture regionali.
Da una parte ci troviamo di fronte ad un avanzamento apparentemente incontrollabile dell’efficacia comunicativa. L’ampliamento delle grandi lingue nazionali e internazionali fa in modo che gli spazi di comunicazione si allarghino sempre di più. Secondo il modello dello stato-nazione di tipo francese o inglese, cioè questi modelli talmente attraenti e allo stesso tempo così ambigui, ogni spazio delimitato da frontiere costituisce un campo indivisibile di validità della “valuta comunicativa”. Ogni cittadino è in grado, o per lo meno dovrebbe essere in grado, di partecipare alla vita della nazione tramite la lingua nazionale. In questa ottica, ogni sviluppo che mira a ridurre l’universalità della lingua nazionale sembra minacciare non solo l’unità ma anche la vita civile. Questo sviluppo deve essere interpretato come una violazione dell’integrità dello spazio comunicativo.Tuttavia, questo discorso non è altro che una concezione a doppio taglio. Man mano che le patrie perdono la loro importanza e si uniscono in unità più vaste, il valore delle lingue nazionali subisce anch’esso una diminuzione progressiva. Se accettiamo la scomparsa delle parlate locali e regionali, saremo costretti ad accettare un bel giorno che spetti alle lingue nazionali di cedere il loro posto alle poche lingue veicolari che saranno sopravvissute e che rimanga, a termine più o meno lungo, l’unica lingua a vocazione autenticamente globale, cioè l’inglese. Non penso che sia questo ciò che desiderano i difensori di un giacobinismo all’interno delle frontiere delle loro rispettive nazioni.
Esiste una vera e propria antitesi alla tendenza di un ampliamento sempre più dominante del principio dell’efficacia, come abbiamo appena visto. C’è il movimento contrario che incita a risalire alle fonti, a ritrovare le identità irriducibili, lo scompartimento cosciente dello spazio comunicativo. La logica dell’efficacia sembra certo ineluttabile, ma non è tuttavia onnipotente. Ci si può infatti chiedere il perché. Perché conservare parlate a portata ridotta quando possediamo strumenti di comunicazione molto più potenti e più efficaci? Prendiamo un esempio concreto: perché impuntarsi sulla preservazione o il rafforzamento delle lingue come il catalano, il galiziano o il basco, quando abbiamo a disposizione lo spagnolo, che è una lingua parlata da più di trecento milioni di locutori, una delle rare lingue ancora in grado di affrontare la crescita irreprimibile dell’inglese? Perché rinunciare volontariamente ad un mezzo di comunicazione incomparabilmente più ricco e potente? Citiamo pure anche il caso del russo. Perché abbandonare in tutta coscienza il russo, che è una lingua veicolare provvista di tanti privilegi e numericamente la più importante delle lingue parlate in Europa, per poi rifugiarsi in lingue come il lituano, il georgiano, l’armeno o il kasàk? Oppure, scendiamo di un grado nella gerarchia delle lingue e chiediamo perché opporre al piccolo imperialismo georgiano (che, quanto a lui, fa fatica a mantenersi di fronte al grande imperialismo russo) una resistenza violenta che invoca un’identità abkasa unica e irriducibile? Sono queste le domande alle quali è difficile rispondere se consideriamo solo la logica dell’efficacia comunicativa.
Sono del parere che è impossibile afferrare la situazione linguistica nel mondo d’oggi e le situazioni politiche e sociali correlate senza considerare il fatto che la diversità linguistica è un dato antropologico fondamentale. È ovvio che la facoltà umana del linguaggio si esprime in un’infinità di lingue particolari. Però, ciò che conviene sottolineare è il carattere irriducibile della diversificazione. La diversità linguistica non è un fattore aleatorio, non è nemmeno un incidente di percorso o semplicemente un ostacolo che l’umanità avrebbe da superare nel suo cammino verso l’unità finale. Questa diversità è un dato fondamentale, irriducibile, inalterabile, della condizione umana. L’umanità si divide in sottogruppi che, evidentemente, non formano specie nel senso biologico del termine, ma che non per questo sono prive di una forza separatrice impressionante e spesso temibile. Secondo una formula di Eric Ericson ripresa poi dal celebre etologo Konrad Lorenz, si tratta di una “pseudo-speciazione”, di un processo di diversificazione interna che rievoca la speciazione biologica, visto che crea delle barriere di comunicazione non in termini genetici ma in termini di linguaggio. La diversificazione all’infinito delle lingue umane è il corollario necessario della nostra facoltà linguistica. C’è una sorta di controreazione proveniente dal nostro intimo ad ogni tentativo d’uniformazione globalizzatrice, contro il rullo compressore di una civilizzazione e di una lingua unitarie e totali. Nonostante le ragioni apparentemente irrefutabili di una certa logica economica, ci concediamo il “lusso” della diversità. Anche i locutori di lingue a diffusione supranazionale si voltano verso il passato e fanno rivivere il loro patrimonio ancestrale prima ch’esso sia definitivamente scomparso. Efficacia contro identità, ecco le parole-chiave di un antagonismo profondo che sottende vari conflitti nel mondo attuale. Anche l’esperienza piemontese trova il suo posto in questo antagonismo.
2. “Lingua” e “dialetto”: questioni di definizione e di applicazione
Per quanto riguarda i fattori esterni, bisogna considerare una serie di criteri, tutti riferiti al grado di elaborazione di registri “superiori”, cioè al di là della comunicazione orale di base. Nelle nostre civiltà moderne si tratta principalmente di registri scritturali. Si può stabilire una gerarchia molto semplificata di questi registri (per ordine ascendente):
teatro
prosa narrativa
giurisprudenza, amministrazione, politica
scienze esatte, tecnologia
Nel discorso pubblico predominante i due tipi di criteri sono spesso mescolati in maniera inestricabile, suscitando in questo modo malintesi ed equivoci d’ogni sorta, quando non si tratti di un deviamento volontario ad uno scopo preciso. L’uso dei termini di “lingua” e “dialetto” non è sempre innocente né politicamente neutro! Esistono poi delle differenze nazionali notevoli. In Italia, il termine di “dialetto” è meno peggiorativo che altrove visto che le varietà linguistiche della Penisola godono finora di buona salute e di un certo prestigio sociale e storico. Contrariamente all’uso generale, il dialetto italiano è usato nel senso di “varietà inferiore (low variety secondo Ferguson) in una situazione diglossica”. In questo modo, il termine si oppone alla lingua che serve a designare la “varietà superiore (high variety) in una situazione diglossica”. In Francia, invece, il termine di “dialetto”, e più ancora il termine quasi sinonimo di “patois”, ha preso delle connotazioni davvero negative. In Spagna, si tende oggi a usare a casaccio il termine di “lingua”, frequentemente con intenzioni politiche chiare, creando così, in modo artificiale, delle unità autonome laddove in termini storici e linguistici ci sono infatti solo dialetti – basta pensare in particolare alla battaglia della cosiddetta “lingua valenziana”!
È stata dibattuta a lungo la questione della classificazione del catalano. Appartiene al gruppo ibero-romanzo o al gruppo gallo-romanzo? Numerosi argomenti sono stati presentati in favore di un’ipotesi o dell’altra. Per finire ci si è dovuto arrendere all’evidenza: il catalano è in verità una lengua puente (secondo una formula proposta da Antonio Badia Margarit, 1955; vedere anche Baldinger 1971: 125-160), una lingua dunque che serve da ponte tra la Gallo-Romània e l’Ibero-Romània e che presenta delle affinità tanto con una che con l’altra. Questa constatazione di ordine linguistico corrisponde pienamente alla sua geografia e al suo divenire storico.
- il sistema vocalico contiene le vocali anteriori arrotondate /ü/ e /ö/, cioè un tratto che collega il gallo-italiano al retoromanzo e al gallo-romanzo;
- il tipo accentuale favorisce l’eliminazione degli elementi postonici, causando un aumento del tipo ossitono (il francese moderno avanzerà questa tendenza fino alle sue ultime conseguenze);
- la marcatura della funzione soggettale viene eseguita da un sistema di clitici verbali molto complesso ed elaborato (vedremo alcuni dettagli in seguito);
- nel sistema dei tempi verbali il passato remoto che marcava l’aspetto aoristo, è scomparso; così si oppongono, nella lingua attuale, il sistema preteritale bipartito del gallo-italiano (e del francese contemporaneo) al sistema preteritale tripartito dell’italiano (e della maggior parte delle altre lingue romanze).
-o per la e la 6a persona, -e per la 2a e la 5a.
2: it-X-e 5: i-X-e
3: a-X-a 6: a-X-o
2: X-i 5: X-ate
3: X-a 6: X-ano
2: t(y)-X 5: vu-X-e
3: i-X 6: i(z)-X
.4. Le rivoluzioni ecolinguistiche in Europa e l’uso del piemontese
Nella storia linguistica dell’Occidente si possono distinguere tre periodi di trasformazioni profonde, periodi che ci permettiamo di chiamare “rivoluzioni ecolinguistiche” (espressione introdotta da Baggioni 1997). Si tratta di epoche durante le quali la diversità linguistica è aumentata e si è sviluppata invece di impoverirsi. In altre parole, durante questi periodi il principio d’identità ha avuto il sopravvento sul principio dell’efficacia. L’affermazione di una specificità è prevalsa sull’espansione dello spazio comunicativo. Da una prospettiva storica, il progresso dell’uso letterario coltivato del piemontese fa parte di questa corrente.
La prima di queste rivoluzioni può essere riassunta in una sola frase: l’universalità del latino viene confrontata allo sviluppo delle lingue vernacolari nella loro diversità. Quest’epoca corrisponde alla nascita delle grandi lingue di civilizzazione e future lingue nazionali del Medioevo. Le lingue romanze quali il francese, lo spagnolo e il portoghese si emancipano dalla loro lingua madre, il latino, per formare entità indipendenti e autonome. È dunque un periodo di liberazione delle lingue vernacolari, un riavvicinamento delle lingue scritte all’ambito parlato, l’arrivo al potere dell’elemento autoctono e popolare. Riprendiamo le parole di Dante: è l’avvento della lingua naturalis, quella che abbiamo imparato senza sforzo dalla bocca delle nostri madri (o nutrici, come direbbe Dante), a carico della lingua artificialis, la lingua classica della quale si può appropriarsi solo con fatica e dopo lunghi sforzi costanti (vedere Bossong 1990: 43-63).
Questa corrente così positiva di per sé non è tuttavia priva di effetti negativi. Da una parte è evidente che l’allargamento del campo d’applicazione delle lingue vernacolari vada di pari passo con la riduzione e finalmente la di- sparizione della lingua universale europea già esistente a quest’epoca, cioè il latino. Ogni progresso delle lingue volgari provoca il declino della globalità europea fondata sul latino. D’altra parte si deve pure ritenere che, tra le lingue vernacolari emancipate in questo modo, alcune saranno relegate in secondo piano dopo un periodo di fioritura, in conseguenza di varie evoluzioni politiche. Tale è il caso dell’occitanico, il cui declino come grande lingua letteraria è in realtà una conseguenza della crociata anticatara. Tale è pure il caso del catalano, che vede la sua influenza profondamente ridotta dopo la costituzione di uno stato spagnolo unificato. Ciò vale anche per il galiziano, che non riuscirà a conservare il suo statuto di lingua di cultura, accerchiato com’è dai suoi due vicini potenti, lo spagnolo e il portoghese. E per concludere vale anche per il sardo che, non lo dimentichiamo, è stato la lingua giuridica e amministrativa dei “giudicati” autonomi del Medioevo, prima di cedere il posto dapprima al catalano, poi allo spagnolo e finalmente all’italiano in un’epoca più recente. Ognuno di questi casi può essere indicato come “classico decaduto”, per riprendere un’espressione creata da Harald Haarmann.
È l’epoca non solo delle grandi lingue di cultura come la koiné dei trovatori o il castigliano della corte di Toledo, ma è anche un periodo durante il quale si osservano sbocciamenti letterari più passeggeri e più limitati nello spazio. Lo sviluppo delle lingue vernacolari mette in scena varietà locali relegate in seguito all’ultimo posto. In Francia, l’uso della parlata della Champagne, il piccardo o l’anglo-normanno, è stato per tanto tempo più dominante di quello della parlata dell’Île-de-France. In Spagna l’aragonese ha interpretato a lungo una parte importante prima di eclissarsi di fronte alla crescita irresistibile del castigliano.
La seconda rivoluzione ecolinguistica avviene all’epoca del Rinascimento. Si riassume in poche parole: l’istituzione delle lingue nazionali. È l’epoca dell’”umanesimo volgare”, della “défense et illustration” delle lingue finora a caratteri verncolari, l’epoca alla quale le grandi lingue degli stati-nazione nascenti, tale lo spagnolo, l’italiano e il francese, si liberano definitivamente dalla dominazione latina. La loro elaborazione giunge a maturità. Saranno d’ora in poi usate in ogni campo. Al di là dei registri letterari si formano dei registri di prosa specializzata e le lingue romanze occupano poco a poco lo spazio riservato finora al latino. Trascinato dalla corrente, il latino indietreggia sempre di più. Paradossalmente è in fatti il “rinascimento” stesso della lingua classica che accelera questo regresso: ridiventato ciceroniano, il latino perde la sua facoltà di adattamento e di rinnovamento che lo avevano mantenuto vivo durante i secoli di “barbarie” medioevali. La riscoperta della sua purezza antica l’ha fossilizzato e nello stesso tempo ne ha provocato la morte.
Le grandi lingue sono elevate allo statuto di lingue amministrative e giuridiche. L’istituzione degli stati-nazione va di pari passo con il processo di rendere ufficiali le lingue nazionali rispettive. Questo cambiamento parallelo della posizione dello stato e della funzione della lingua condurrà alla formazione di nuovi centri di gravitazione, se mi posso esprimere in questo modo (un modello gravitazionale è stato proposto recentemente anche da Calvet 1999). Mi sembra difatti che si tratti qui di una metafora eccellente per descrivere ciò che è accaduto durante il Rinascimento. Le lingue nazionali si cristallizzano e si trasformano in centri dove convergono tutte le forze della nazione. Lo si può comparare alla formazione degli astri e dei pianeti secondo i modelli cosmologici in vigore: la materia sparsa si concentra e si condensa e, a partire da un certo momento, il nuovo globo costruito in questo modo incomincia a esercitare la sua forza di gravitazione, attraendo o distruggendo la materia che rimane intorno a lui.
La forza delle nuove lingue nazionali agisce in due sensi opposti. Da una parte, è diretta contro il latino e dall’altra mira alle varietà regionali. Abbiamo appena visto che la lingua sopranazionale del Medioevo viene marginalizzata. L’universalità europea a livello del clero e degli eruditi è sostituita da un’universalità più ristretta dal punto di vista geografico, limitata alla nazione, ma più estesa dal punto di vista sociale, perché destinata ormai a ogni strato sociale. Nello stesso tempo, le lingue vernacolari locali sono relegate in secondo piano, quando non vengono totalmente eliminate. Questo vale particolarmente per i “classici decaduti” già menzionati, cioè il provenzale, il catalano e il galiziano. Il corso che seguono gli avvenimenti ha però delle conseguenze anche per le varietà locali che non sono riuscite ad imporsi. E così sparisce l’uso letterario di varie lingue, come il piccardo o l’aragonese, in favore del francese e dello spagnolo. Il caso del piemontese si inserisce in questo quadro generale e presenta qualche tratto particolarmente istruttivo. Questa lingua si situa, come abbiamo insistito più volte, tra due zone d’influsso maggiore, quella del francese e quella dell’italiano. Si ritrova dunque presa tra due centri di gravitazione poderosi. Di conseguenza è incapace di formare un’entità forte e autonoma. La parte ultramontana del ducato di Savoia e la Val d’Aosta gravitano verso il francese mentre il Piemonte cisalpino aspira alla toscanità di una lingua letteraria in pieno sviluppo. Come è stato sottolineato da Claudio Marazzini, gli editti di politica linguistica di Emanuele Filiberto sono, visti sotto questo aspetto, di grande importanza (vedere la sua edizione in Bruni 1997: II, 22-24 e il suo studio in Bruni 1997: I, 13-14). Questi testi sono delle preziose testimonianze, poiché questo principe era perfettamente cosciente della situazione linguistica particolare nella quale si trovava il suo dominio, nel cuore stesso di un’Europa dalle frontiere tracciate da poco. Questi decreti amministrativi seguono senza dubbio il modello dell’ordinanza di Villers-Cotterêts di François I (1539). Alla luce di questo famoso testo, che possiamo considerare come l’autentico documento di fondazione dello stato-nazione moderno, gli editti ducali comportano pure un doppio intento: esplicitamente contro il latino e implicitamente contro le varietà locali. Nei due editti del 1561 e del 1577 è questione di abolire l’uso del latino negli atti pubblici e in particolare nelle procedure giudiziarie, in favore della “lingua volgare”. Nell’editto del 1561, scritto in francese, viene precisato che questa sia la langue vulgaire, chaque Province la sienne. Per le regioni ultramontane e il ducato d’Aosta sarebbe il francese, perché è la lingua più “comune e generale e perciò la più intelleggibile” per i popoli di questi paesi. Questo testo non fa riferimento alle parlate franco-provenzali, la lingua autentica del “popolo” di quest’epoca. Secondo il testo dell’editto stesso, redatto in un francese puro e conforme alla norma dell’epoca, non c’è dubbio che l’obiettivo sia il francese standard. La stessa constatazione può essere fatta nell’editto del 1577, scritto in italiano. In questo caso, la toscanità perfetta del testo rende assolutamente chiara l’intenzione di interpretare il termine di “lingua volgare” nel senso di “italiano” e non di una forma qualsiasi di piemontese. L’emancipazione dal latino si produce in favore di un volgare illustre e non in favore di un insieme di patois rustici. Conviene osservare che l’abolizione del latino è meno completa sul versante italiano delle Alpi. Mentre l’editto francese prevede la sua eliminazione pura e semplice sotto pena di nullità e di multa, l’editto italiano favorisce l’uso del volgare per le “narrazioni di fatti”, mentre concede ai giuristi dotti di servirsi del latino per le loro “allegazioni” e le loro “recitazioni delle leggi”, ciò che prova una volta di più che la posizione del latino è stata più forte e più durevole in Italia che in un qualsiasi altro posto della Romània. Né le parlate piemontesi né le varietà franco-provenzali, che insieme formano la transizione tra il campo italo- e gallo-romanzo, sono riuscite a erigersi a centro di gravità. Sono rimaste allo stato di variabilità primaria, usate a fini meramente letterari, più o meno sistematicamente. Ci sono certo state opere di un interesse incontestabile, in particolare delle opere teatrali come le farse di Gian Giorgio Allione d’Asti o il Cont Piolèt del marchese Carlo Giambattista Tana. Però, malgrado l’esistenza di tali produzioni. non è mai stata questione, per il piemontese né del resto per il franco-provenzale, cioè due “lingue per distanza”, di aspirare ad una qualsiasi elaborazione non letteraria. Essendo situate tra due poli di attrazione, queste lingue non sono riuscite a condensarsi in nuclei indipendenti, sebbene una tale scelta sarebbe stata teoricamente possibile all’interno delle frontiere del potente ducato sabaudo. Nel momento di ricostituire i suoi stati, Emanuele Filiberto non immaginava altra possibilità che di adottare sia il francese sia l’italiano come lingua ufficiale. Il gioco era fatto, non c’era più spazio per altre lingue nazionali in questa regione.
La terza rivoluzione ecolinguistica si riduce a queste parole: il risveglio delle lingue non nazionali. Questa corrente paneuropea sarà avviata nel secolo dell’illuminismo, essenzialmente durante la seconda metà del secolo XVIII, per poi svilupparsi pienamente all’epoca del romanticismo. Vengono riscoperti i “classici decaduti” del Medioevo: in Spagna Sarmiento pubblica degli studi eruditi sul galiziano, nel Mezzogiorno della Francia Raynouard si entusiasma per l’eredità occitanica. Più tardi, si faranno rivivere queste lingue in un modo spettacolare: il “rexurdimento” galiziano si farà portavoce della “renaixença” catalana; nello stesso tempo il provenzale conosce un nuovo slancio nelle produzioni poetiche del Félibrige, che culmina nell’epopea Mirèio del premio Nobel Frédéric Mistral. Secondo il modello delle corti medioevali vengono reintrodotti dovunque i “jeux floraux”, vere giostre poetiche che non sono semplici esercizi retrogradi e nostalgici ma che danno impulsi nuovi alle lingue vernacolari trascurate troppo a lungo e oppresse dallo strapotere delle grandi lingue nazionali. Nello stesso tempo, e in altre regioni d’Europa, vengono riscoperte le lingue autenticamente popolari, con la loro immensa eredità trasmessa oralmente. Ci troviamo ad esempio nell’epoca delle scoperte delle tradizioni popolari slovene, serbe e carelo-finniche.
In Piemonte si può osservare, in questo periodo, una certa stabilizzazione della produzione letteraria. Secondo Pacotto il secolo XVIII marca il vero sviluppo della letteratura piemontese: “Il settecento fu il secolo più coscientemente piemontese, il più piemontese della nostra storia, nel quale il linguaggio, dopo una serie di profonde variazioni, raggiunse la forma definitiva, con un sapore, per noi, forse, leggermente vecchiotto, tuttavia attuale”. (citato secondo Brero & Gandolfo 1967: 4).
Merita un’osservazione particolare Maurizio Pipino: malgrado sia un mediocre verseggiatore rimane il primo teorico della lingua. Dobbiamo a lui la prima grammatica e il primo dizionario del piemontese (pubblicati nel 1783). La sua attività è in perfetta armonia con lo spirito dell’epoca. Durante il secolo XVIII si incomincia un po’ dappertutto in Europa a descrivere le lingue minoritarie, per le quali non si era ancora stabilita una grammatica nel periodo del Rinascimento, come era stato fatto per le lingue nazionali. Ho già menzionato gli studi di Martín Sarmiento riguardo il galiziano e aggiungo, in questo contesto, la grammatica, la descrizione storica e il dizionario della lingua basca, pubblicati da Larramendi tra il 1729 e i1 1745.
Malgrado tutti questi sforzi meritori per la “défense et illustration” del piemontese, la situazione di questa lingua prigioniera tra due poli di gravitazione potenti, rimane precaria e scomoda. Il fascino del francese si fa sentire particolarmente durante il periodo napoleonico. Un intellettuale della statura di Carlo Denina sogna pure un territorio di passaggio capace di unire la Francia e l’Italia, favorendo un bilinguismo italiano-francese più esteso. Secondo lui, il francese sarebbe più adatto che l’italiano, lingua troppo letteraria e troppo retrograda per servire alla modernizzazione della regione nel suo orientamento europeo (vedere Marazzini 1997: 1, 29). La cosa sorprendente in questo discorso è che il francese abbia effettivamente potuto sembrare un’opzione realistica, un’alternativa all’italianizzazione progressiva. Visto dal piemontese, una tale scelta non è esclusa. La situazione di diglossia “dialetto” – italiano, che il Piemonte condivide con l’intera Italia, prende un’altra piega in una zona dove il cosiddetto “dialetto” è infatti una lingua di distanza rispetto all’italiano. È dunque potuto parer legittimo dichiararsi in favore del francese invece dell’italiano come lingua di civilizzazione e di comunicazione internazionale.
Tali idee non sono però state applicate in seguito. La maggior parte degli autori hanno accettato l’italiano come lingua capace di veicolare la modernità. Il peso di questo centro di gravitazione aumenta sempre di più durante la prima metà del secolo XIX, particolarmente grazie allo sviluppo di un patriottismo italiano per il quale il modello toscano riveste un valore simbolico fondamentale. È vero che il sentimento patriottico si esprime talvolta in piemontese, però non smette mai di essere ispirato dall’amore per la “grande patria”. A proposito della celebre Piemontèisa di Angelo Brofferio, del 1859, Pacotto scrive: “Le parole erano piemontesi, perché dettate da cuori piemontesi; ma l’anima di quei canti era italiana” (vedere Brero & Gandolfo 1967: 57, 600s). È vero anche che la produzione letteraria, esclusivamente poetica, aumenta in ampiezza e in profondità. Ormai il piemontese dev’essere senz’altro considerato come una lingua letteraria matura, pienamente sbocciata. Ciononostante rimane riservato a una produzione poetica regionale, non viene usato nella prosa narrativa e non ha nessuna possibilità di erigersi a lingua ufficiale, nemmeno di essere riconosciuta come una lingua a parte, al di fuori di un continuum dialettale italo-romanzo. In Piemonte, come in tutto il resto dell’Italia unita, la situazione diglossica è accettata come tale. Il piemontese occupa lo statuto di semplice “dialetto” tra tanti altri. La sua specificità linguistica non gli conferisce uno statuto speciale. L’opzione francese è sparita e con essa la coscienza di appartenere a una terra di transizione, di costituire un ponte verso le regioni transalpine. Questo fossato si allarga di più con la perdita della Savoia francese. Il Piemonte è ormai una delle numerose regioni che costituiscono la nazione italiana, priva di privilegio.
5. Presente e futuro della lingua piemontese: qualche riflessione
Non spetta a me tracciare a grandi linee la storia dell’uso letterario del piemontese durante il secolo XX. Come nel passato e come per la maggior parte delle lingue regionali e minoritarie, predomina la poesia. Negli ultimi tempi assistiamo anche all’avanzata di una nuova prosa narrativa. L’ampia- mento del campo d’uso verso la prosa letteraria è sempre un buon segno di vitalità, una promessa di avvenire. L’apparizione di una prosa specializzata rimane ancora timida e modesta, ma dopo tutto il fatto che i contributi di questo congresso e di quello precedente siano formulati in piemontese è di buon auspicio. Questa prosa si riferisce a temi regionali. Siamo ancora lontani da un uso più generalizzato e dal trattamento di temi nazionali o universali. L’Italia non è la Spagna, dove incontriamo oggi una profusione di pubblicazioni su ogni tipo di temi in catalano, in basco e anche in galiziano, benché meno importante in termini di quantità. È infatti da chiedersi se uno sviluppo come quello osservato in Spagna dopo la morte di Franco sarebbe da augurarsi per un paese come l’Italia. La coesistenza delle varietà regionali e della lingua nazionale non è certamente priva di problemi, ma in generale funziona senza troppi scontri e conflitti. L’Italia non è nemmeno la Francia, dove le lingue regionali, dopo lo straordinario scalpore prodotto dalle loro rivendicazioni qualche decennio fa, stanno per morire di una morte lenta e poco spettacolare. Si estinguono sempre di più, in tutta tranquillità, e alcune fra loro saranno sepolte in silenzio in un futuro prevedibile. In Francia non è stata una politica repressiva a rendere inoffensive le lingue regionali, piuttosto un’attitudine di laisser-faire. La lingua nazionale si è imposta da sola e le misure di estirpazione introdotte nel secolo XIX nelle scuole elementari non sono più necessarie. In Italia, invece, i “dialetti” stanno ancora abbastanza bene, con o senza politica linguistica. Rimane però una questione: per quanto tempo ancora? Le lingue minoritarie possono resistere tramite la letteratura alle minaccie che devono affrontare? Possono mantenersi senza funzione ufficiale? Ce lo dirà il futuro.
Vorrei concludere con un commento di carattere generale. Cosa significa scrivere in una lingua regionale, una lingua “minoritaria” all’interno della nazione, anche se maggioritaria o perfino universale nella regione di origine? Possiamo permetterci il lusso di utilizzare una lingua a diffusione minore quando si hanno cose importanti da dire? È una questione che tanti autori nel mondo rivolgono a se stessi. Tutti conoscono Salman Rushdie o Taslima Nasrin, però chi li conoscerebbe se avessero pubblicato in una lingua indiana? Autori latino-americani come José María Arguedas o Augusto Roa Bastos, avrebbero incontrato un uditorio internazionale se avessero scelto il quechua o il guaraní anziché lo spagnolo come mezzo di espressione? Ci sono evidentemente le traduzioni, ma perché ricorrere alla traduzione se si ha a disposizione una grande lingua nazionale o una lingua a vocazione universale? Sono stato colpito da un’osservazione, secondo me molto giusta, di Sergio Gilardino, formulata a proposito di Luigi Olivero, in occasione dell’ultimo congresso sul piemontese a Vercelli: “Se Olivé a l’avèissa poetà con autërtanta gajardìa e spatuss ant una lenga nassional, al di d’ancheuj chiel a sarìa tra ij poeta ij pì sità dël Neuvsent europengh” (Gilardino & Villata 1997: 161). Non è un peccato che questo grande poeta non sia maggiormente conosciuto al di là dei limiti stretti degli “ambienti poetici piemontesi”?
La risposta, in fondo, è semplice e si lascia formulare come una questione alternativa: se avesse scritto esclusivamente in italiano sarebbe diventato un grande poeta? La lingua materna rappresenta una parte essenziale dell’identità di ognuno di noi, come abbiamo detto all’inizio. L’assimilazione a una lingua imparata, una lingua artificialis, può corrispondere ad una scelta cosciente, ad una identificazione a posteriori con un sistema di valori dettati, ma non sostituirà mai completamente l’impronta lasciata da una lingua primaria, ingerita dalla più tenera età. È questa la lingua che ci servirà più tardi, per esprimere i nostri sentimenti più profondi. È questa la lingua nella quale può generarsi il poema. È la lingua naturalis di Dante, dono universale di tutti gli uomini.
Malgrado l’assenza di una politica linguistica ufficiale e di provvedimenti di stimolo, malgrado la riduzione progressiva del suo valore comunicativo e delle sue funzioni sociali, la lingua piemontese avrà un futuro assicurato fintanto che sarà la lingua naturalis di grandi poeti e fintanto che sarà coltivata con tanto entusiasmo come qui a Vercelli!