Così la ‘ndrangheta si è presa Torino
Parla l’unico pentito del clan: droga, edilizia e politica le armi usate per conquistare il Nord industriale
F. Monga, N. Zancan, la Stampa 15/12/2009
Mi chiamo Varacalli Rocco, sono l’unico pentito dell’ndrangheta in Piemonte. Ho vissuto vent’anni di faide, omicidi e affari». Non ha mai parlato con i giornalisti. Il suo è un racconto a doppio filo, dalla Calabria a Torino: «Ma l’ndrangheta è una sola, e gode di ottima salute. Alcune imprese lavorano al Nord da decenni, indisturbate». Appuntamento in un hotel vicino a uno svincolo autostradale. Indossa scarpe lucide nere, un cerchietto per tenersi i capelli ossigenati.
Nell’onorata società calabrese Varacalli, 39 anni, è arrivato al grado di camorrista finalizzato, livello medio. Però è l’unico che ha deciso di collaborare. Dopo aver firmato centinaia di pagine di verbali, ora vorrebbe scrivere un libro. Il suo racconto criminale è ritenuto molto interessante dai carabinieri, dalla Dia e dalla Procura di Torino. Ha fatto aprire tre inchieste. Alcuni risultati sono già emersi. Altri, clamorosi, verranno: «Ho fatto 450 nomi». Finora – dice – è emerso solo il trenta per cento. L’omicidio di Roberto Romeo, odontotecnico di Rivalta messo a tacere perché aveva assistito a un regolamento di conti. La fine in una tomba senza nome del boss di Platì, Pasqualino Marando. Gli affari delle cosche negli appalti per le Olimpiadi del 2006, sull’alta velocità e il passante ferroviario. È stato uno dei pentiti centrali del processo Stupor Mundi, su un traffico internazionale di droga dalla Colombia all’Italia. Di Varacalli, il gip Emanuela Gai, scrive: «Del tutto inaspettatamente ha deciso di collaborare. Una decisione genuina. Infatti ha reso ampia confessione su gravissimi reati per i quali non era stato raggiunto da alcun provvedimento restrittivo». È già stato in carcere dieci anni. Pende su di lui una condanna a vent’anni per l’omicidio di Giuseppe Donà, disegnatore della Valeo giustiziato alle porte di Torino nel gennaio 2003: «Per un debito di droga. Ma io non ho sparato». La Corte d’Assise d’Appello però, su questo punto, non gli ha creduto.
Qual è l’inizio della storia?
«Nato a Natile di Careri, sono salito a Torino a 15 anni per fare il muratore con mio zio. Portavo i soldi a mia madre, cuciti nei pantaloni, perché in treno non me li rubassero. A 19 anni ho ospitato Giuseppe Amedeo, un amico di mio padre. Sapevo che trasportava arance. Una sera mi ha lasciato una busta sul tavolo: “Per il disturbo”. Era un milione e mezzo. Ho nascosto la coca sotto il letto. Ho capito come vivere bene».
Come?
«Andavo al paese. Mettevo la droga nelle ruote, due viaggi alla settimana. A Torino nel ‘95 facevo fuori 2 chili ogni tre giorni. La compravo a 40 al grammo, la vendevo a 130-170. La tagliavo con il Milupa, quello dei bambini. Mettevo la mascherina perché sono schizzinoso. Mai usato droga in vita mia».
Quanto guadagnava?
«Anche 130 milioni al mese».
Come ricicla la ‘ndrangheta a Torino?
«Appalti e subappalti, costruendo e comprando immobili. Gli ’ndranghetisti di oggi hanno tutti delle imprese. Con i soldi della droga paghi puntuale i dipendenti, compri macchinari e materiali. Poi aspetti i bonifici delle azienda appaltatrici. Ci sono imprese dell’ndrangheta che lavorano a Torino da 30 anni. E nessuno le ha mai toccate».
Lei dove ha costruito a Torino?
«Il palazzo dopo il cavalcavia di via Mazzarello. Tutta la nuova zona a fianco del Palazzo Lancia. Ho preso il lavoro in subappalto nel 2003. Stavo costruendo lo scheletro di 308 alloggi. Poi mi hanno arrestato con un chilo e mezzo di eroina. Ma solo io, nel giro di due anni, sono riuscito a riciclare 2 milioni di euro».
Quanta ‘ndrangheta c’è nel Torinese?
«Tantissima, ma non si vede. È l’organizzazione più potente perché riesce davvero ad essere segreta. Ogni zona della città è coperta da un locale. Un nucleo formato da minimo cinque persone: picciotto, capo giovane, contabile, mastro di giornata e capo società».
Quali erano le sue zone?
«In Provincia, Grugliasco, Pinerolo, Piossasco e parte del Canavese. In città Vanchiglia, San Salvario e Porta Palazzo».
Cosa è cambiato oggi?
«C’è stato un grande salto. Allora avevamo la mente corta: spaccio, gioco d’azzardo, rapimenti».
Poi cosa è successo?
«Pasqualino Marando, ed altri soggetti criminali che ancora non sono venuti fuori, hanno alzato il livello. Sono riusciti ad aggrapparsi a persone fuori dal giro mafioso. Lui aveva molti soldi per farsi conoscere. A Torino comprava alloggi e ville, ha agganciato le teste di legno, commercialisti e avvocati di alto livello. È lui che ha fatto fare il salto».
Altro personaggio cruciale?
«Il consulente del lavoro Ilario D’Agostino, arrestato ad ottobre. È un cassiere dell’ndrangheta a Torino. Ripuliva i soldi».
Contatti con la politica?
«Molti hanno fatto carriera con i voti dell’onorata società. In Calabria e in Piemonte».
Come si aggancia il politico?
«Il politico ha bisogno di voti, l’ndrangheta di lavorare in pace. I capi indicano chi dobbiamo portare avanti perché ci fa prendere appalti, o magari ci fa diventare un terreno edificabile».
I commercialisti?
«La ‘ndrangheta ti compra piano piano con regali, donne e soldi. A nessuno fanno schifo queste cose».
Nel Torinese professionisti e politici di che livello?
«Non posso rispondere c’è il segreto istruttorio»
Lei sostiene di non aver mai ucciso, ma l’aveva messo in conto?
«Per me era una gioia. Solo l’idea mi faceva sentire importante. Tante volte ho puntato la pistola alla testa di personaggi poco corretti».
Perché ha deciso di collaborare?
«L’ndrangheta mi ha tradito. Ero orgoglioso di essere un affiliato. Pensavo che fra calabresi fosse giusto aiutarci. Ero un uomo di rispetto, ospitavo i parenti dei carcerati che salivano al nord. Ma hanno iniziato ad infangarmi. Ci trovavamo al night di Cuorgnè. Se i capi andavano con le ragazze, tutto a posto. Se lo facevo io, dicevano che non rispettavo più la famiglia. Mettevano voci in giro. Facevano delle tragedie. Dicevano che mi drogavo, ma non era vero».
Quando si è pentito?
«La sera del 16 ottobre 2006, ma non per il carcere duro. Ero in isolamento dal 7 maggio, per tutta l’estate non avevo fatto un’ora d’aria. Però mi sono detto: “Perché devo continuare a fare il mafioso se gli altri non rispettano le nostre leggi?”».
Perché parlavano male di lei?
«Ero diventato troppo grande. Davo fastidio, guadagnavo bene. La ‘ndrangheta, a volte, è traditrice. Per loro sei come un robot: ti costruiscono, ti usano e ti buttano via».
Oggi come vive?
«Faccio l’imprenditore. Sono orgoglioso di essere pentito. Ho ritrovato il Rocco dei 16 anni. Ma vivo nascosto, con la paura di essere ammazzato. La mia famiglia mi ha ripudiato. Al paese si sono vestiti di nero».