«Sgherri madornali e balordi, i due grattacieli rubano luce, libertà e senso alla sconsolata via Santa Teresa. Due torracce insulse e predone, un maremoto di calcestruzzo e di follia in una città che forse non meritava Jack lo Squartatore camuffato da sindaco. Qui per esternargli doverosa osservanza i sindaci hanno da essere scordati, non ricordati. A nuoto, a stento, tirando l’anima coi denti, tentano di salvarsi Guarini, Juvarra, Costaguta (e Lanfranchi junior). Salvi sono salvi ma gocciolano e rabbrividiscono scuotendosi l’acqua di dosso».Valdo Fusi, 1976
«Grattacielo, skyscraper in inglese, in tedesco hochhaus, in francese gratte-ciel, in spagnolo rascacielos. In piemontese non si dice», nota Renato Scagliola su Stampa Sera del 17/7/1991. Non è proprio così, in lingua piemontese esiste il termine gratacel, ed anche – più simile al tedesco e più appropriato a Torino – ca-àuta. “Grattacieli” sono quegli edifici che si innalzano oltre i 100 metri, che a Torino, per ora, sono solo due, a riprova della vocazione “orizzontale” della nostra capitale barocca. È chiaro come Scagliola intendesse proprio riferirsi al fatto che il “grattacielo” non si addice a Torino. «Grattacieli per modo di dire. Dal punto di vista architettonico per decenni a Torino sono state sfornate opere di rara bruttezza, o meglio insignificanti…».
Per i Torinesi, infatti, è già uno sproporzionato gratacel il palazzo di 50 metri che dal 1950 incombe sulla piazza Solferino e attrista tutta l’area sottostante e circostante, frutto della speculazione edilizia ai limiti della legalità innescatasi nel periodo della ricostruzione. Non servono troppe parole per definire tale costruzione sorta sul limite dell’antica città, dove un tempo c’erano le prime case di fronte alla Cittadella del Duca Emanuele Filiberto. E neppure è necessaria troppa fantasia per augurarsi che sia tolto di mezzo il prima possibile. E non si venga nuovamente ad argomentare che anche questo sarebbe il “simbolo” di un’epoca; è semplicemente invasivo, fuori luogo, cresciuto in circostanze poco chiare, ed ancora nel 2002 un sondaggio lo indicava come il quinto edificio meno amato dai Torinesi. Semplicemente un monumento all’arroganza, all’ignoranza e alla speculazione.
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La Spina di piazza Solferino
All’angolo fra via Pietro Micca e via Santa Teresa c’era una casa che chiamavano La Spin-a. Era stata costruita proprio in punta al tracciato della nuova “diagonale” Pietro Micca (1886/1897) per mettere in comunicazione diretta piazza Solferino con piazza Castello. La forma quasi triangolare della Spin-a era necessaria per raccordare l’incontro fra la “diagonale” e via Santa Teresa all’altezza di piazza Solferino, e questa sua forma “appuntita” le era valso il soprannome.
Poi venne la guerra. Nella sola Torino morirono sotto i bombardamenti 2069 civili ed altre 2695 restarono feriti. Anche sotto l’aspetto edilizio la nostra capitale pagò un prezzo altissimo alle velleità “imperiali” italiane: il 40% circa delle abitazioni fu distrutto o danneggiato (82.077 su 217.562). Furono colpite 10.424 attività commerciali su un totale di 29.016, oltre a 1018 industrie.
Durante l’incursione aerea angloamericana del 21 novembre 1942 una bomba cadde proprio sull’angolo della Spin-a, che crollò verso piazza Solferino restando in piedi sul lato prospiciente via San Francesco d’Assisi. Finita la guerra i condòmini manifestarono subito la loro intenzione di ricostruirla.
Ma quell’incrocio si doveva rivelare, con l’aumento delle auto, sempre più problematico per il traffico – con esiti, negli anni ’40, talora tragici – e la presenza sporgente della Spin-a venne più volte indicata fra i responsabili degli ingorghi. Pertanto, quando nel 1947 (Sindaco Celeste Negarville, comunista) il Comune bandì un concorso per la risistemazione urbanistica di quell’angolo, colse l’occasione per prevedere un maggiore spazio alla circolazione, imponendo di arretrare il fronte della nuova casa.
Il progetto vincitore, se realizzato, sarebbe stato un altro disastro: la trasformazione in piazza del primo tratto di via Botero e lo sventramento dei vecchi edifici, fra cui proprio la casa “Maggia” (progetto dep. 1887, ing. Gilodi) – quella dove ha avuto sede fino ai primi anni ’90 del secolo scorso l’Hotel Fiorina, storico ritrovo di artisti dello spettacolo – anch’essa gravemente danneggiata.
Nell’ambito delle trattative con i proprietari dell’area della Spin-a questi ottennero di potere recuperare in altezza la metratura che avrebbero perso con l’arretramento del fabbricato. È qui venne fuori l’idea del “grattacielo” di 14 piani. A supporto di questi brillanti colpi di genio in luglio un convegno di ingegneri e architetti torinesi giudicò positivamente l’opportunità di erigere grattacieli in centro, purché i progetti prevedessero demolizioni tutt’intorno per creare spazi adeguati al maggiore flusso di persone che simili edifici avrebbero convogliato. Si stava consolidando quell’alleanza fra architetti e imprese edilizie volta ad approfittare delle opportunità speculative legate alla ricostruzione, alleanza sostenuta da gruppi finanziari in cerca di affari. Come sempre accade in questi casi, le voci critiche vengono zittite e accusate di essere antiche e fuori moda.
Già a metà del ’49 (Sindaco Domenico Coggiola, comunista) il progetto del “grattacielo” (Ing. Gualtiero Casalegno) fu approvato dalla commissione edilizia e, da allora, si fece di tutto per portare a termine la costruzione il più in fretta possibile. Si autorizzò anche il restauro di casa Maggia (Hotel Fiorina), quasi a dimostrare come il Comune avesse altro per la testa che non lo sventramento degli isolati di via Botero previsto dal progetto sortito dal concorso (che peraltro il Comune ora diceva essere stato soltanto un modo per individuare progetti ispiratori).
Certi consiglieri comunali iniziarono, apparentemente in modo acritico, a definire i grattacieli “una necessità moderna”; a questi facevano eco le preoccupazioni della cittadinanza, interpretate dalla Società piemontese di archeologia e belle arti, «per le ferite che di frequente, con il consenso e la tolleranza delle autorità, si sono arrecate in questi ultimi tempi al volto caratteristico di numerosi ambienti architettonici torinesi».
Il primo approdo in Consiglio comunale sollevò un coro di critiche, la proposta di autorizzazione venne rinviata ad una commissione consiliare che la respinse all’unanimità. Ma, di lì a un mese (la sera del 28 novembre 1949), su proposta dell’assessore all’edilizia Guido Casalini, la proposta fu improvvisamente approvata. Il grattacielo si sarebbe potuto costruire “in deroga al regolamento edilizio”. I piani dell’edificio erano saliti a 15; la fronte era arretrata di 13 metri rispetto alla Spin-a, e ciò fu giudicato sufficiente.
Questa “deroga al regolamento edilizio” creò un brutto e pericoloso precedente. «E non si verificherebbe allora un vero e proprio caos urbanistico, con queste torri svettanti qua e là a rompere la tradizionale armonia architettonica di Torino?», aveva già segnalato La Stampa nel giugno precedente; segno evidente che l’affare era nell’aria.
Nel dibattito consiliare, dai banchi dell’opposizione l’avv. Cravero, liberale, denunciò un altro aspetto della speculazione in atto. Le modifiche che il Comune aveva intenzione di apportare al piano regolatore – che tuttavia non si decideva a varare – stavano bloccando la ricostruzione. Sulla base di queste intenzioni il Comune cassava le richieste dei proprietari i quali, di fronte a questa situazione stagnante, si disfavano delle loro proprietà, nelle quali spesso subentravano gruppi di speculatori che riuscivano ad ottenere dal Comune concessioni illegittime o, addirittura, cominciavano a costruire abusivamente. «Da ciò è nato il fenomeno dei “grattacieli”». Di fronte all’abusivismo dilagante il Comune faceva semplicemente sapere che «le costruzioni già abusivamente eseguite ed in corso si intendono intraprese a totale rischio della società proprietaria, fatta salva ogni responsabilità dell’amministrazione civica anche per quanto riguarda i diritti di terzi». Capito?
Le famose “deroghe al regolamento edilizio” finirono poi sotto esame della Commissione d’inchiesta sulle irregolarità edilizie. Il 17/2/1950 il prefetto informò il Comune dell’avvenuta sospensione dei provvedimenti della delibera del 28/11/1949, in attesa di determinazioni ministeriali. Ciononostante la costruzione fu intrapresa e il grattacielo venne edificato a tempo di record. L’Impresa Cravotto iniziò i lavori a Pasqua del ’50 procedendo al ritmo di un piano la settimana. In luglio aveva già raggiunto il quattordicesimo. Pur di non sospendere la costruzione durante i lavori vennero conciliate due contravvenzioni. Il 2 agosto, festa dei muratori, il lavoro poteva dirsi concluso.
La Giunta Coggiola, sotto pressione, il 28 luglio prese in esame le proposte di varianti al regolamento edilizio le quali, se approvate, avrebbero potuto annullare tutte le autorizzazioni “in deroga” e, conseguentemente, far considerare irregolari tutti i “grattacieli” che con questo escamotage si stavano costruendo a Torino, fino a giungere alla sospensione dei lavori.
Il 18 novembre la commissione d’inchiesta sulle irregolarità edilizie ne riscontrò una definita “molto grave”: il grattacielo sarebbe stato costruito senza tener conto delle soluzioni adottate dai tecnici per piazza Solferino, vale a dire avrebbe occupato parte di un’area destinata a viabilità. Infatti, secondo il progetto-guida vincitore del famoso concorso del ’47, il “grattacielo” non avrebbe dovuto sporgere sulla piazza bensì risultare allineato al palazzo Fiat accanto (quello dove oggi c’è il ristorante Brek). Le autorizzazioni concesse “in deroga” per la costruzione del grattacielo come per la ricostruzione di casa Maggia (ma siamo convinti che non fu quest’ultima la prima delle preoccupazioni del Comune) avevano pregiudicato l’intero piano. La commissione d’inchiesta definì irregolari entrambi i permessi concessi ma, all’inizio di dicembre, si limitò a constatare come gli organi del Comune fossero semplicemente incorsi in “leggerezze”; non emersero responsabilità e l’istruttoria venne chiusa.
Nell’ottobre del ’51, con l’apertura della galleria pedonale fra via Pietro Micca e via Santa Teresa, tutti i lavori terminarono. I piani fuori terra erano ormai saliti a 17, ma nessuno se ne lamentò, salvo i titolari dell’Hotel Fiorina, che denunciarono l’Impresa Cravotto, la Società immobiliare Spina e alcuni proprietari, ritenendo abusivi gli ultimi due piani, e chiedendo il pagamento dei danni poiché il grattacielo privava l’albergo di luce, aria e impediva l’utilizzo del solarium, in quanto la sua mole opprimente lo lasciava permanentemente in ombra.
Nel marzo del ’52 ci si lamentava di come, dopo la costruzione del grattacielo, il traffico fra piazza Solferino e via Santa Teresa fosse diventato ancora più caotico.
Nel ’55, sotto la Giunta del democristiano Amedeo Peyron, viene finalmente varato il nuovo piano regolatore. A descriverlo c’è da tremare, ma non è qui la sede. Tuttavia, fra i previsti sventramenti (grazie a Dio mai effettuati) e a varie amenità (gli “eliport-taxi” su piattaforme sopraelevate a fianco di ogni stazione delle corriere…), nel centro storico viene limitata l’altezza massima degli edifici a 21 metri.
Scrive Marziano Bernardi (La Stampa del 12/11/1955): «Purtroppo il malfatto, quei due o tre ridicoli “grattacieli”, nessuno lo potrà riparare; e la stupidaggine di quei baracconi rimarrà a documentare una smania di “metropolismo” dinamico e avveniristico risoltosi in provincialismo».
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Ma, in fondo, cos’era per Torino quel triangolo di terra fra la Piassa dël bòsch, la Contrà ‘d Santa Teresa e quella ‘d San Martinian? All’inizio del Novecento nella Spin-a (Casa avv. Giuseppe De Vecchi – prog. dep. 22 gennaio 1887, ing. Costantino Gilodi) i fratelli Aschieri gestivano il ristorante “Molinari”, uno dei più rinomati di Torino. Ancor prima, l’antico edificio del 1650, sacrificato alla diagonale Pietro Micca, si trovava sull’amplissimo Corso della Cittadella, di fronte a una delle fortificazioni più ammirate d’Europa (anch’essa vittima di una speculazione edilizia, nel 1852). In quella casa abitava il Barone Friederich von Leutrum (1692-1755), nato tedesco, divenuto piemontese a 14 anni, protagonista dell’assedio di Cuneo del 1744, eroe della riconquista di Asti, della Cittadella di Alessandria e della piazzaforte di Valenza nel 1746. Fu talmente amato dai Piemontesi al punto da essere ricordato ancora oggi dalla celebre canzone patriottica Baron Litron, testimone giunto fino a noi dell’affetto popolare per questo personaggio.
È sufficiente per avere un po’ più di rispetto per la nostra identità?
(NoiAmiamoTurin, 2011)