(o, meglio, cambia dove non dovrebbe e non cambia dove dovrebbe)
L’enorme palazzo moderno di piazza San Giovanni Battista è sempre stato oggetto di feroci critiche. Ribattezzato negli ultimi anni “il palazzaccio” dai giornalisti, se ne è più volte preventivata ed auspicata la demolizione.
Questo pugno in un occhio cresciuto nel 1965 in una delle aree più dense di testimonianze storiche della città appare anche ai più indifferenti un’offesa deliberata alla memoria storica e all’identità di Torino. Per colmo di ironia (o di spregio) ospita al suo interno l’ufficio tecnico comunale dei lavori pubblici.
Il “palazzaccio” sorge proprio in faccia al Duomo di Torino (1491/1505), l’unico edificio rinascimentale della città. Il campanile (ël Cioché) risale al 1469, ancora riconducibile alle tre chiese romaniche preesistenti; fu sopraelevato nel Settecento da Filippo Juvarra. Alle spalle vi è la splendida Cupola della cappella guariniana della Santa Sindone, dove è custodita la più preziosa reliquia della Cristianità. Pochi metri più a nord vi è la Pòrta Palass (Sec I a.C.), sul cui restauro si può (anzi, si deve) dire tutto il male possibile, ma che a Torino rappresenta la principale testimonianza dell’epoca romana, l’unica porta della città rimasta in piedi e, nel suo genere, una delle meglio conservate al mondo. Lì vicino ci sono le vestigia del coevo Teatro romano – forse voluto da re Cozio dopo la sua pace con i Romani, riportato alla luce a cavallo fra il XIX e il XX Secolo in occasione dell’ampliamento del Palazzo Reale – e delle mura della città romana. Lì accanto, il Museo di Antichità espone preziosissimi reperti del Piemonte antico. Dietro il palazzaccio c’è quanto resta di alcuni isolati di case medievali, fra le quale la Ca ‘d Monsù Pingon, le cui prime notizie risalgono al XV Secolo e che di quell’epoca conserva i soffitti lignei, i dipinti murali e l’unica torre medievale superstite in città. Vi abitò il barone Emmanuel Philibert de Pingon de Cusy, storico ufficiale della corte del Duca Emanuele Filiberto; all’interno della casa sono stati rivenuti resti archeologici, come d’altronde in tutta l’area.
Era proprio opportuno imporre ai Torinesi una tale ufficio tecnico proprio lì? L’idea poteva venire solo a qualcuno totalmente indifferente alla storia e all’identità di Torino; oppure a chi aveva ed ha interesse a snaturare l’identità della città.
____________________________________________________________
Sull’area del palazzaccio c’era il Palazzo Richelmy (Palas dij Pòrti) di Carlo di Castellamonte, edificato nel 1622. I suoi portici erano lunghi sessanta metri.
Circola una leggenda metropolitana che lo vorrebbe distrutto dai bombardamenti. In realtà fu deliberatamente demolito dal regime fascista nel 1936, insieme a tutta l’antica Isola di Santa Lucia, nell’ambito di una “riqualificazione” che, in realtà, mirava ad affermare la “romanità” di Torino, anche a scapito delle testimonianze delle epoche successive (a pochi metri sorge la romana Pòrta Palass, burocraticamente e forzatamente tradotta in Porta Palatina).
Si era deciso di far sorgere di fronte al Duomo la nuova sede della Provincia. Vinse il concorso l’architetto Mario Passanti (1901-1975), ma la guerra impedì la realizzazione del progetto. Restò una grossa buca dove la gente vi andava a giocare a bocce e poi, negli anni ’50, vi si accumularono rifiuti! Nel dopoguerra si tentò di speculare sull’intera area, progettando edifici di 25 metri. Nel 1956 un nuovo concorso, questa volta per un palazzo per uffici pubblici, venne nuovamente vinto dall’arch. Passanti, con Paolo Perona e Giovanni Garbaccio. L’edificio oggi chiamato “palazzaccio”, terminato nel 1965 (alcune fonti riferiscono 1966), subì numerose varianti già in corso d’opera, tanto che lo stesso Passanti commentò «sta venendo male…».
«Il portico, senza arredi, è di altezza dimezzata e l’equilibrio della facciata risulta compromesso. I serramenti di alluminio e i dettagli di discutibile qualità, i volumi tecnici aggiunti sul tetto, i balconcini laterali usati come depositi e i cortili invasi dalle scale di sicurezza contribuiscono a dargli un aspetto “balcanico» (Archi-Group U.P.S., 17/12/2004).
Definito “espressione del razionalismo architettonico”, per i Torinesi è semplicemente brutto. Brutto fuori, ormai inadeguato al suo interno, decisamente fuori luogo di fronte al Duomo, si è parlato periodicamente di toglierlo di mezzo. Per ricordare solo gli ultimi tentativi, partiamo dal 1991, quando l’allora assessore ai LLPP Deorsola propose di raderlo al suolo come unica soluzione possibile. Due anni dopo è l’arch. Cagnardi a riproporre l’idea al Comune durante la stesura del nuovo piano regolatore. Nel 1994 la giunta Castellani, in un primo momento, parve orientata verso l’opportunità di spianarlo in vista dell’Ostensione del 1998. Lungimirante la proposta dell’allora assessore Dondona per il futuro luogo di lavoro dei dipendenti ubicati al palazzaccio: la Venchi Unica.
A settembre del ’95 si cominciò però a spostare l’appuntamento con le ruspe alla grande Ostensione giubilare del 2000. Quasi unanime il consenso, salvo qualche architetto che, provocatoriamente, ricordava come Juvarra avesse segato la collina per costruire la Basilica di Superga, o come Guarini avesse aggiunto la Cupola del Santo Sudario due secoli dopo la costruzione del Duomo. Segno che qualcosa era stonato: paragonare il “palazzaccio” alla Cappella della Santa Sindone e a Superga… Difatti di lì a poco si cominciò a parlare del solito “concorso” per modificare l’edificio; ovviamente, in stile “baüscia-comunale”: un “grande” concorso internazionale. In mezzo a tanto fumo la giunta stanziò un miliardo e mezzo di lire per la manutenzione del palazzo… ma allora?
Infatti nel ’96, “in attesa di abbatterlo”, si pensò di nasconderlo ai pellegrini dell’Ostensione foderandolo di vetri riflettenti a specchio. Non accadde nulla fino al 1998 quando la giunta tornò ad affermare che il palazzaccio, «brutto esempio di edilizia da boom economico», «sparirà»… ma non come chiunque sarebbe portato a credere: stavano pensando alla maniera migliore per occultarlo, magari “inglobarlo”. “Si farà comunque una gara internazionale” (ma non doveva già esserci stata tre anni prima?).
Passò l’Ostensione, passò il Giubileo e il palazzaccio restò a far brutta figura in piazza San Giovanni. Perfino La Stampa si schierò apertamente per la demolizione. Nel 2001 un sondaggio del quotidiano domandò ai lettori quale fosse il “pugno nell’occhio” di Torino da eliminare più in fretta e il 46% indicò l’edificio di Passanti, corredando il voto con espressioni tipo “non aspettare un minuto di troppo” o “toglietemelo dai piedi quanto prima”. Niente da fare, perfino del fantomatico concorso non si parlò più. Le proposte da allora si sprecarono. Nel 2002 la Compagnia San Paolo propose una “cortina verde ideata per dissimulare le discusse forme del palazzo Passanti”. Nel 2003, avvicinandosi le Olimpiadi, fu la volta di alcuni architetti che studiarono di sistemarlo sotto una tettoia sostenuta da colonne e ricoperta di lose e vetro… (ovviamente la Soprintendenza – di cui ci domandiamo una volta di più a cosa serva – era d’accordo). I cittadini che si espressero parvero orientati a fare semplicemente saltare in aria il discusso palazzo. Ne seguirono dibattiti, assemblee pubbliche e raccolte di firme.
Curiosamente ed improvvisamente, però, cominciarono ad apparire – ospitati insistentemente sui giornali e con sospetta cadenza periodica – articoli con opinioni autorevoli che definivano il palazzo «la precisa espressione di un’epoca» (ma allora perché camuffarlo?), categoriche ed arroganti affermazioni («non abbatteremo nessun palazzo») e tentativi di spostare l’attenzione sulla riqualificazione dell’area archeologica circostante. Timide reazioni: «Ho abitato dal 1950 al 1956 di fronte al Duomo… quando ho visto sorgere il “Palazzaccio” mi sono chiesto qual era il grado di miopia e di insensibilità dei nostri amministratori di allora, per non capire che cosa stava loro di fronte». A fine anno parve decretato che il palazzaccio sarebbe restato al suo posto. Venne approntato l’ennesimo “lifting” (togliere due piani dalla parte posteriore, enfatizzare il porticato con volte asimmetriche), corredato dalle solite promesse («non resterà sulla carta», «si tradurrà in cantiere» etc. etc.). 80mila copie di una cartolina raffigurante l’area senza il “Palazzaccio”, preindirizzate al sindaco e invitanti a “guardare Torino con occhi diversi” furono stampate per iniziativa privata e distribuite con i giornali.
In gennaio 2004 viene rivelata la rinuncia anche al taglio dei due piani; il palazzaccio si ristrutturerà, si rifaranno gli infissi e i portici, rendendoli coerenti. E i Torinesi cosa diranno? «Non si sa – chiarisce l’assessore al patrimonio – ma una cosa è certa: secondo il sindaco Chiamparino quello stabile deve restare al suo posto». Lo ha ricordato nella conferenza stampa di fine anno. In febbraio si annuncia che tutto si risolverà in nulla: verrà semplicemente rinfrescata la facciata; anche gli infissi saranno sostituiti “in un secondo tempo”.
Il 23 giugno La Stampa scrive: «È comparso sul lato sinistro di via XX settembre, tra il Palazzaccio e il Duomo. È il prototipo del colonnato luminoso che dovrebbe trasformare l’area archeologica in una moderna versione dei Fori Imperiali. Beh, non ci riesce».
Vale anche la pena di riportare tutto l’editoriale di Gabriele Ferraris, apparso su TorinoSette dell’8/10/2004:
Demolire? – «Il lettore attento ricorderà la modesta proposta che tempo fa avanzammo da queste colonne: liberarci del Palazzaccio. Era una proposta insensata, come ci fecero notare tutte le persone di buon senso che si prodigano per rendere Torino più bella che mai. Una proposta quasi teppistica, come ribadirono architetti e non architetti, a cominciare dal preside di Architettura e consulente del Comune per la Qualità architettonica Carlo Olmo, un dottore in filosofia (la regina delle scienze) che – ci informano le gazzette – è stato «chiamato dal sindaco Chiamparino a vigilare sul destino estetico della città», e giustamente vigila acciocché insigni capolavori come l’edificio del Passanti davanti al Duomo non subiscano l’ingiuria di non architetti non abilitati a pontificare in materia d’architettura.
La nostra proposta, giustamente, non portò a molto: tuttavia, si rinunziò al progettato «lifting» del Palazzaccio che – a parere di noialtri ignoranti, né architetti né filosofi – avrebbe (come spesso accade con i lifting) peggiorato la già calamitosa situazione.
Adesso, il dovere di cronaca ci obbliga a pubblicare almeno un paio delle sempre più numerose lettere di torinesi impressionati da quanto sta accadendo in piazzale Valdo Fusi. Francamente, ci imbarazza dar fiato a polemiche, poiché il professor Carlo Olmo ha già confermato quanto detto dall’assessore Alfieri: «Un’opera si giudica quando è conclusa».
Ok. Si concluda l’insigne manufatto. Magari il risultato sarà bellissimo. Ma se non lo fosse? Se facesse pena e pietà? «Per nulla al mondo – ha precisato il professor Carlo Olmo – si dovrebbero spendere soldi pubblici per abbatterlo».
Il messaggio è chiaro, e ben l’ha capito l’autore di una delle lettere che pubblichiamo a pagina 5. Non possiamo ancora sapere se alla fine piazzale Valdo Fusi sarà un mostro architettonico. Comunque, se a lavori ultimati sarà un mostro architettonico, ce lo terremo.
I soldi pubblici non si usano per abbattere i mostri architettonici.
Semmai, per costruirli.
Nel 2005 un’ulteriore alzata di ingegno del nostro ineffabile Comune per “mascherare” il loro tanto amato palazzaccio: su proposta dell’assessore Fiorenzo Alfieri si approva un’installazione permanente di “luci d’artista”, un omaggio alla multicultura fatto di neon colorati che riportano scritte in tutte le lingue del bacino mediterraneo (nonostante Torino non sia una città mediterranea…). L’opera finirà poi a Porta Palazzo, sulla Tettoia dell’Orologio del 1916!
L’edificio che doveva essere abbattuto è stato invece restaurato. Sui giornali non se n’è mai più scritto.
Nel 2006 uno degli architetti del palazzaccio, Giovanni Garbaccio, afferma «La gente capisce poco l’architettura moderna: c’è totale divaricazione fra il modo in cui i cittadini e gli architetti giudicano l’edificio». Una nuova collana editoriale dell’editore Allemandi viene presentata proprio con un volume su quel palazzo di piazza San Giovanni Battista. A Carlo Olmo non manca il coraggio: «…in questa società se ne contesta non l’architettura, ma l’ideologia sottesa. È democratico e antiretorico e va difeso perché incarna la Torino degli Anni Cinquanta: è un pezzo della nostra storia ed identità». Invece Roberto Salizzoni, professore di Estetica: «Se dici che è brutto, ti spiegano che non capisci niente, e ti parlano del significato, della storia, del contesto. Eppure, se viene un amico da fuori Torino, non lo porti a vederlo. Anni fa si discuteva di abbattere, oltre a questo edificio, comunque funzionale, anche il Delle Alpi, che è bello ma non funziona perché non si vedono i giocatori, e Palazzo Nuovo, che non funziona ed è brutto. Spero di vedere presto raso al suolo almeno lui». Marco Demarie: «Non va conservato per forza tutto. Che nelle città, in quanto frutto di stratificazioni lasciate dalla storia, nulla si possa demolire, è un’idea autoritaria».
Tutto ciò, cui prodest? Non ci è dato saperlo, ma ci pare evidente che ci sia un disegno molto chiaro di imbruttimento di Torino, anche se camuffato da belle parole, fondali, baracconi e grandi eventi, sostenuto proprio da coloro i quali avrebbero il compito – anche istituzionale – di rendere la nostra città più bella e vivibile.
____________________________________________________________
Vedere in proposito anche il sito www.cultorweb.com
(NoiAmiamoTurin)