«Bisogna avere il coraggio di essere diversi»

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L’orgoglio di salvare Torino

Luigi Firpo, La Stampa, 22/5/1971

La città deve trovare il denaro e la passione necessari per redimere se stessa, evitando le tentazioni del salvataggio integrale e del rassegnato abbandono – Non è soltanto un problema di restauri illuminati: i danni più gravi al carattere unitario degli antichi quartieri non li hanno causati il tempo o gli eventi bellici, ma la speculazione e l’ottusità degli uomini.

Un discorso sulla Torino che si smaglia nel suo tessuto urbanistico antico, la Torino scrostata e sudicia, fatiscente e degradata, dev’essere condotto in termini di assoluto realismo, soffocando gli impulsi del sentimento e gli struggimenti della nostalgia.

Si tratta di un discorso che si snoda fra due rischi opposti: quello velleitario della conservazione ad oltranza, del salvataggio integrale a tutti i costi, e quello del pessimismo rinunciatario, dell’abbandono rassegnato alla furia del tempo e alle dissennate cupidigie degli uomini. Il primo sfocia nell’utopia, nel proposito assurdo di eternare ogni pietra, ogni scorcio, cioè di fermare la storia; il secondo non fa che avallare col suo fatalismo l’abbandono irreparabile, la speculazione cinica, gli sventramenti. La città malata resta così sospesa fra i pannicelli caldi e l’autopsia.

La diagnosi non lascia dubbi nell’additare le cause profonde — storiche, sociologiche, economiche — dello sfacelo. Al cadere del Cinquecento Torino era poco più di un villaggio, quando già Milano e Venezia toccavano i 150.000 abitanti e Napoli superava i 300.000. Se si eccettuano pochissimi monumenti più antichi, come le Torri Palatine, sfuggite per miracolo al piccone demolitore, i torrioni romani e medievali della fortezza degli Acaia, il manipolato e mutilo S. Domenico, la tarda e provinciale testimonianza di Rinascimento toscano del Duomo, qualche bifora in cotto, qualche frammento, non ci rimane null’altro del nostro più antico tessuto urbano. Inghiottita totalmente e distrutta dalla nuova capitale burocratico-militare dello Stato sabaudo, la Torino del Medioevo e del Cinquecento è scomparsa per sempre. Sulle sue macerie è sorta la Torino di Vittorio Amedeo I, la città barocca, corsa da èmpiti di fantasia, ma contenuta in rigorosi schemi geometrici, tutta tesa fra estro e rigore, che fiorì in una stagione creativa breve ed intensa e nell’arco di mezzo secolo, dalla venuta del Guarini alla partenza dello Juvarra, scrisse una delle pagine più alte della storia architettonica d’Europa.

Nulla è mediocre

Fu allora che il «centro storico» assunse il suo aspetto definitivo, la sua impronta di varietà contenuta, di eleganza sobria, di uniformità disciplinata. Nel 1728 Montesquieu ammirò i suoi quartieri «allineati con il filo a piombo», e la definì «il più bel villaggio del mondo». Dieci anni dopo, il presidente de Brosses lodava «le vie allineate, la regolarità degli edifici, la beltà delle piazze», ma soprattutto l’assenza dei contrasti, suscitati altrove dall’alternarsi delle casupole ai palazzi: a Torino invece «non vi è niente di bellissimo, ma tutto è uniforme e nulla è mediocre, in un insieme piccolo ma pieno di grazia».

Purtroppo, quel rinnovamento urbanistico totale maturò in decenni di guerre estenuanti: molte fabbriche sorsero tra difficoltà economiche continue; i muri non furono saldati di pietre vive o di mattone sodo, ma costruiti come gusci da colmare di macerie pestate, che il tempo ha intriso di umidità stillata dai tetti dissestati; le volte non furono girate ad archi portanti, ma affidate a travi annegate sotto veli di stucco, oggi infracidite e corrose fino a sbriciolarsi. Nel nostro secolo questa decadenza si è fatta acuta. Mentre nuovi bisogni e nuovi gusti allontanavano sempre più gli abitanti facoltosi dalle vecchie dimore scomode e fredde, troppo vaste, troppo intristite dal buio delle viuzze anguste, vennero a prenderne il posto nuovi inquilini sempre più poveri, sempre meno esigenti, ma anche meno rispettosi del decoro antico e di tradizioni cui si sentivano estranei. Si è avviata così la spirale discendente: bassi ricavi, manutenzione trascurata, addensamento promiscuo, fino alla degradazione urbanistica e all’abbandono.

Nessuno si illuda, di fronte a un fenomeno così grave, generalizzato, incancrenito, di risolvere il problema con un’ordinanza municipale che inviti a rappezzare gli intonaci o a tinteggiare le facciate. Occorre che enti pubblici e privati adottino idealmente, ad uno ad uno, questi monumenti derelitti e li redimano con un ricupero integrale, inteso non solo al restauro materiale, ma al reinserimento in un tessuto sano e vitale. Esempi insigni non mancano: basti il sontuoso ripristino del palazzo Turinetti, in cui l’Istituto di S. Paolo ha collocato la propria sede centrale, o quello del palazzo della Cisterna, ora della Provincia, quello del palazzo Asinari di S. Marzano, ora Turati, fino al restauro recentissimo del palazzo d’Azeglio, destinato ad ospitare la Fondazione Einaudi. Ma si tratta di interventi delicati, costosissimi, che debbono essere guidati da un amore autentico e lungimirante. Occorre suscitare un interesse appassionato, un senso di responsabilità puntiglioso, volto a denunciare, a prevenire, a soccorrere, se vogliamo salvare tutti insieme questa nobile città che muore. È tempo che la città che ha raccolto in un’ora una somma ingente per restaurare i cavalli di San Marco, trovi il denaro, la passione, l’indignazione necessari per redimere se stessa.

Ma qui il discorso deve mutare di registro, perché gli insulti più gravi e irreparabili al carattere unitario di Torino e alla sua bellezza raccolta e austera non sono venuti dal tempo distruggitore, dalle calamità guerresche, dalle trasformazioni sociali, bensì dalla passività ottusa, dalla speculazione cinica, dalla petulanza insipiente. Torino non muore di morte naturale, ma per una serie di criminosi attentati. Se non riusciremo a farli cessare, a stroncare questa serie di delitti urbanistici ed estetici, anche i più costosi e illuminali restauri reste ranno lettera morta. Non si salva un bosco segandolo tutto quanto e lasciando in piedi solo una decina di alberi secolari.

Opulenze borghesi

Non mi resta che portare qualche esempio. Cominciò la età umbertina a squarciare il reticolo romano con la sghemba via Pietro Micca e smantellò la contrada dei Guardinfanti per erigere tra portici, pinnacoli e false logge i monumenti alle borghesi opulenze disegnati da Carlo Ceppi. Poi venne il fascismo, amico degli sventramenti imperiali, e la piazza Castello venne deturpata dalla ridicola Torre Littoria col suo avveniristico scheletro di ferro, mentre la nuova via Roma sconvolgeva il centro urbano, contenuta nel primo tratto da moduli di un manierismo dignitoso, ma raggelata nel secondo dallo squallido stile piacentiniano. Basta guardarne i lampioni per vedere cosa significa ricostruire serbando una misura dimessa e fedele, oppure innovare per gratuito capriccio: là le sobrie lanterne ingentilite da un’esile corona, qui i trapezoidali cassoni di vetro, gli acquari capovolti, di una modernità stile Anni 30 che, in fatto di gusto, è oggi più vecchia del Colosseo.

Poi, col secondo dopoguerra, sono calati i Vandali. Perché si è consentito al tozzo e insipido grattacielo di via XX Settembre di affacciarsi dall’alto, come un guardone indiscreto, sullo specchio puro di piazza S. Carlo? Perché l’altro suo scialbo gemello sconcia l’equilibrio pacato di piazza Solferino? Accanto alle grazie raffinate di palazzo Lascaris un edificio moderno serba solo — quasi assurdamente — la cubatura dell’antico, ma vi si accampa con graniti esotici e serramenti sfavillanti di ottoni e cristalli: la facciata di S. Teresa affoga tra due insignificanti palazzotti appollaiati su finte travature pietrose; la chiesetta di S. Maria di Piazza, esile e prezioso capolavoro del Vittone, è ormai aggredita di fronte e di fianco da anonimi cellulari di marmo e di cemento; in via Bogino, quella che fu un tempo l’aristocratica contrada degli Ambasciatori, la futura Biblioteca Nazionale, pudicamente velata sulla fronte dalla facciata tardo-settecentesca delle vecchie scuderie dei Carignano, protende verso la rude, nobile facciata di palazzo Graneri il suo violaceo deretano ignudo, di una modernità pretensiosa e impudica, già irreparabilmente vecchia prima dell’inaugurazione.

L’elenco potrebbe continuare a lungo, dallo scenario squallido che contorna le Torri Palatine alla « cosa » nefanda che il Comune ha collocato davanti al Duomo per ospitarvi non so che uffici, dal cassone giallastro della Società Reale in via Corte d’Appello al sorgente palazzo della Borsa, che sulle macerie dello squisito palazzo d’Agliano eleva un’assurda facciata curva, un ennesimo personale capriccio, legittimo dovunque, bellissimo magari, ma che qui suona di disforme e offensivo.

Forse qualche architetto mi tratterà da passatista retrivo e minaccerà di sbranarmi, ma non importa. Quando ai primi del secolo crollò il campanile di S. Marco, ci fu battaglia tra gli esperti sui criteri della ricostruzione, ma alla fine — e fu gran ventura per Venezia — prevalse la tesi di chi lo volle «come era, dove era». Cosa sarebbe oggi quella piazza con un «moderno» campanile Art Nouveau, tutto volute floreali? Con questa umiltà fedele, dopo lo scempio guerresco, sono rinate Norimberga e Varsavia, in un ricalco amoroso dell’antico. Per gli esperimenti del nuovo c’è l’intera pianura padana, senza bisogno di sconciare con intrusioni continue un’antica, quieta bellezza.

Tutto perduto?

Forse l’irreparabile e ormai avvenuto, anche se Torino assorbe e cancella tanti stridori, li annerisce e confonde con il suo smog provvidenziale, che ha reso accettabile perfino la casaccia liberty di via Monte di Pietà. Ma cosa accadrà domani, quando il piccone aggredirà la città romana? Edificheremo architetture finlandesi o californiane su strade larghe quattro metri? O spazzeremo via tutto, cancellando ogni ricordo, ogni rispetto del nostro passato, cioè di noi stessi? Forse è proprio su quell’area dell’antico castrum romano che a Torino si offre una grande occasione di intervento globale: restauro scrupoloso degli edifici d’arte: rifacimento esternamente fedele delle case da ricostruire; sfoltimento della densità con piccoli giardini pubblici conchiusi; isole pedonali estese e quiete; riqualificazione sociale con negozi raffinati, boutiques e un artigianato di eccellenza.

Una città si smaglia anche per minuscole ferite: qui uno slargo per parcheggiare dieci motorette, là un allineamento perduto, altrove un piano di troppo; persino le larghe stradali bianchicce sono un insulto volgare sul rosso mattone della Casa del Tasso. A che scopo restaurare i vecchi palazzi, se poi i loro cortili silenziosi han da essere trasformati in parcheggi gremiti: fra i porticati dell’Università, nell’atrio di palazzo Carignano, sotto l’androne di palazzo Barolo le vetture si assiepano, chiudono i varchi, invadono ogni prospettiva; palazzo Paesana, sontuoso come una reggia privata, severo come un collegio gesuitico, è ormai un condominio promiscuo e brulicante, costellato di targhe professionali, di tubi al neon, di bidoni d’immondizie: qualche inquilino, di testa sua, ha dipinto a vivaci colori stipiti e davanzali.

Ma anche i nomi antichi vengono stoltamente cancellati, e con essi le radici profonde del passato. C’erano tante strade nuove da intitolare a Giuseppe Verdi senza dar di spugna a via della Zecca. Con la caduta del regime, qual migliore occasione per restituire il suo nome antico alla via dell’Ospedale, senza tirare in ballo Giolitti? Quanto mi piacerebbe che il Consiglio comunale votasse un giorno il ripristino di tutti i vecchi nomi cari, veder rispuntare corso Oporto e corso Valentino, e la via degli Speronai e la contrada del Moro e la Volta Rossa, e mandare tutti i grandi uomini di ieri e di ier l’altro a cercarsi qualche bel viale di periferia, dove c’è spazio e gloria per tutti.

Forse oggi sono in troppi a sentire la bellezza antica come ostacolo e ingombro per una civiltà che sembra appagarsi soltanto di pubblicità, parcheggi, bar, abiti fatti, tavole calde, sale da ballo e flippers. Bisogna avere il coraggio di essere diversi. Torino era soprattutto un «clima», un modo di essere civile, un paesaggio spirituale inconfondibile, una patria del cuore. I Torinesi si muovano. Lo stupro deve cessare.

(NoiAmiamoTurin)

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