La sentenza della Corte Costituzionale contro la lingua piemontese svela definitivamente il tentativo di assimilare i Piemontesi alla cultura italiana e, di fatto, ne riconosce la specificità.
Se la lingua piemontese non è una “variante dell’italiano”, i Piemontesi sono un popolo a sé: una Minoranza nazionale.
La guerra che l’Italia ha dichiarato alle minoranze linguistiche non è mai terminata. Iniziata fin da subito, al momento dell’unificazione politica, è proseguita attraverso il fascismo (giungendo anche a toccare punte di ridicolo notevoli) ed è continuata in età repubblicana. Fino ad arrivare ai nostri giorni. Essa si è espressa da una parte con l’assimilazione forzata alla cultura italiana delle popolazioni non italofone (basti pensare al ruolo svolto dalla scuola pubblica, a cominciare dalla riforma Coppino del 1877), dall’altra con la ridicolizzazione e la marginalizzazione delle lingue delle minoranze (in cui si esprimeva la loro cultura). Tutto ciò al fine di sottrarre sempre più a tali lingue spazi vitali e ambiti d’uso, in modo da farle spegnere “di consunzione”, quasi di morte naturale: abbandonate dai parlanti, escluse da ogni ambito pubblico, totalmente assenti dai mezzi di comunicazione, esse (tale era il calcolo dei governanti italiani) sarebbero così “naturalmente” scomparse con il passare del tempo. Per far ciò era però indispensabile tenerle fuori dalla porta dell’ufficialità e negarne anzi la stessa esistenza, appiccicando loro l’epiteto di “dialetto” (con il che se ne disconosceva l’importanza e le si faceva rientrare nell’ambito più generale dell’italiano, che le rendeva così inutili, in quanto le ricomprendeva e al contempo le superava).
Lo Stato italiano ha sempre “giocato d’anticipo”, negando sempre nel modo più fermo la loro stessa esistenza: esse, semplicemente, non c’erano, o erano, al più, soltanto “dialetti” (che, in quanto tali, non rivestivano alcun particolare interesse e non potevano pretendere nessuna forma di riconoscimento o di protezione).
Questo è proprio ciò che è avvenuto (e che continua a verificarsi) con la lingua piemontese.
Per lo Stato italiano il piemontese non deve esistere.
Accettarne l’esistenza significherebbe ammettere la specificità del popolo piemontese, con tutto ciò che ne deriva, anche in termini politici. Il problema è proprio qui: finché i Piemontesi parleranno piemontese essi saranno irriducibili alla cultura italiana. La nostra lingua è, infatti, la nostra identità e lo scudo contro l’assimilazione forzata che lo Stato vuole imporci a tutti i costi.
La recente sentenza della Corte Costituzionale n. 170 del 10 maggio 2010, avversa alla legge regionale 11/2009 che riconosceva espressamente la lingua piemontese, non fa che confermare e sanzionare questi dati di fatto. Non ci si poteva aspettare null’altro; in questo senso questo documento è di fondamentale importanza.
Infatti, con esso:
– al piemontese è negata la propria individualità, essendo inoltre degradato a semplice “dialetto italiano”;
– si vuole assolutamente evitare che la lingua piemontese possa assumere una valenza che non sia esclusivamente culturale, in modo da mantenerla sempre e comunque in una posizione nettamente subordinata all’italiano;
– si dichiara che è esclusivamente lo Stato italiano ad avere potestà per quel che riguarda il riconoscimento delle lingue minoritarie (in altre parole, a Roma decidono cosa parleremmo noi in Piemonte), cercando così di bloccare sul nascere ulteriori tentativi di riaffermare i nostri diritti linguistici.
Le lingue minoritarie? Una «non materia»!
Ma su cosa si basa il ricorso governativo, dal quale poi discende la sentenza? Essendo evidente che la Costituzione attribuisce alle Regioni (anche di quelle a Statuto ordinario come il Piemonte) la competenza esclusiva sul riconoscimento e la tutela delle lingue minoritarie, il Governo si è inventato (e qui siamo davvero al gioco delle tre carte, al Diritto all’italiana…) che “la tutela delle minoranze linguistiche […] dovrebbe potersi qualificare non tanto come “materia”, «ma come “argomento” o comunque “valore” […] o come «”non materia”», senza che la sua mancata inclusione nei commi secondo e terzo dell’art. 117 Cost. consenta di considerare la medesima come attribuita alla potestà esclusiva delle Regioni”. Has-to capì ‘l ciolarò? La Costituzione attribuisce la “materia” relativa alle minoranze linguistiche alle Regioni, e cosa fa il Governo per “aggirare” l’ostacolo e bloccare la legge piemontese? Cambia le parole, inventandosi che le lingue di minoranza non costituirebbero già una “materia” (secondo la Costituzione), bensì un “argomento” o (ma pensa te!) addirittura una “non materia”. Robe da matti, ma la cosa ancora più kafkiana è che la Corte Costituzionale è andata oltre. Davvero, come ebbe a dire il generale Giacomo Durando a Napoli nel 1860, «siamo nel Paese dove le cose più inverosimili diventano cose di fatto».
Lo Stato usurpa le competenze della Regione Piemonte
Con le sentenze n. 62 del 1992 e n. 159 del 2009 la Corte Costituzionale ha sancito che la legge 482/99 ha il valore di una norma interposta (vale a dire di una legge “applicativa” della Costituzione, in questo caso dell’articolo 6): “l’attuazione del valore della tutela delle minoranze linguistiche richiede «l’interposizione del legislatore ordinario»” (vale a dire dello Stato, ciò anche per “la ineludibile tutela della lingua italiana”), “con la conseguenza dell’attribuzione della natura di norma interposta alla legge statale n. 482 del 1999, alla quale le Regioni dovrebbero attenersi «nell’adottare disposizioni di dettaglio nell’ambito delle materie di propria competenza», a partire dall’«individuazione della minoranza linguistica da proteggere»”.
Capovolgendo lo spirito della Costituzione (e attribuendo allo Stato la competenza che è invece della Regione), si pretende di stabilire che legge di riferimento (non derogabile) è la legge 482, oltre alla “consolidata giurisprudenza costituzionale” che, alla prova dei fatti, ha portato le lingue di minoranza a uno stato comatoso. Bella tutela! Da ciò deriva, per conseguenza logica, che “le altre disposizioni impugnate sarebbero «conseguentemente incostituzionali», in relazione ad altrettante disposizioni di detta legge statale”. Beh, certo: date le premesse, le conseguenze sono ovvie.
In parole povere: la Costituzione attribuisce potestà esclusiva alle Regioni, il Governo si inventa il giro di parole “materia”/”argomento”, si trovano pronte due sentenze che (a nostro giudizio arbitrariamente) assegnano alla legge statale il ruolo di norma interposta e zàcchete!, il gioco è fatto: non soltanto lo Stato si riappropria di competenze non sue, ma blocca addirittura la Regione Piemonte che, in modo sacrosanto, riconosce la lingua dei suoi cittadini.
Fanno passare il bianco per il nero
D’altronde, il difetto è nel manico, e sta proprio nella legge 482, addirittura all’articolo 1. È proprio la Corte Costituzionale che ce lo ricorda: “con la predetta legge n. 482 del 1999, il legislatore statale, dopo aver proclamato, all’art. 1, comma 1, che «la lingua ufficiale della Repubblica è l’italiano», ha altresì ribadito (art. 1, comma 2) che spetta alla Repubblica il compito di valorizzare il «patrimonio linguistico e culturale della lingua italiana»”. In altre parole, la legge che dovrebbe tutelare le lingue di minoranza ha come obiettivo principale quello di difendere la lingua di Stato. Insomma, siamo sempre al gioco delle tre campanelle.
Questo caso ricorda tanto da vicino quello della legge istitutiva del cosiddetto “federalismo fiscale” (legge 5 maggio 2009, n. 42), che – a parte altre considerazioni e del fatto che non se ne vedrà traccia prima di sette anni – fin da subito fa nascere “Roma capitale” (con tanto di “Assemblea Capitolina” e fondi speciali, art. 24 della medesima legge).
Per le minoranze nazionali solo perline colorate
La sentenza specifica anche che «mentre in un caso, con i termini “Repubblica” e “Stato” ci si vorrà riferire in modo precipuo alla dimensione dell’organizzazione politica o amministrativa di una comunità “generale” o al sistema delle sue articolazioni istituzionali, nell’altro caso, con l’espressione “minoranza linguistica”, ci si manterrà sul piano di fenomeni sociali affidati all’andamento delle dinamiche segnate dal comportamento dei protagonisti». In altre parole: alla “generalità” dei cittadini italiani (e italofoni) viene assicurata – e riservata – la rappresentanza istituzionale (l’organizzazione politica o amministrativa di una comunità generale), mentre le singole minoranze vengono lasciate (abbandonate?) “all’andamento delle dinamiche segnate dal comportamento dei protagonisti”. Ora, a parte l’italiano orribile, il concetto è chiarissimo: agli “Italiani” è riservato uno Stato (con tutte le competenze relative), per le minoranze (magari di due o tre milioni di persone, come i Piemontesi) “ci si manterrà sul piano di fenomeni sociali”. Cioè: in un caso Università e televisione pubblica, nell’altro sagre paesane e antichi mestieri.
Veramente l’Italia è un povero Paese! La roba da matti, poi, è che, proprio a causa di questa interpretazione (e si consideri qui quanto si è distanti, per esempio, dalla Spagna e dalla Svizzera) «il tema della tutela della “lingua” […] appare necessariamente sottratto alla competizione, o alla conflittualità, tra legislatori “competenti”. Ed è, perciò, primariamente affidato alla cura dell’istituzione, come quella statale, che – in considerazione delle ragioni storiche della propria più ampia rappresentatività […] – risulti incaricata di garantire, in linea generale, le differenze proprio in quanto capace di garantire le comunanze: e che perciò risulti in grado di rendere compatibili, sul piano delle discipline, le necessità del pluralismo con quelle dell’uniformità». Ora, rappresentatività di chi? È infatti chiaro come il sole, anche alla luce di questa sentenza, che l’istituzione statale non rappresenta proprio per niente i cittadini piemontesi. Anzi! E che cosa significano espressioni vuote e inutili come “garantire le differenze” e “rendere compatibili, sul piano delle discipline, le necessità del pluralismo con quelle dell’uniformità”, se non una nemmeno nascosta chiara volontà di assimilarci?
Lasciamo perdere, poi, l’organizzazione dello Stato italiano, che è una barzelletta a livello internazionale, tanto che in tutto il mondo quando bisogna indicare qualcosa di improvvisato e mal fatto si usa comunemente l’espressione “all’italiana”. Ma per piacere!
Chi deve decidere il destino dei popoli?
Tuttavia, la sentenza non cessa di essere istruttiva (in questo senso è una vera perla preziosa, che svela chiaramente quella che è la reale percezione dell’Italia nei confronti dei Piemontesi: e, attenzione, qui carta canta, si tratta di un organo costituzionale dello Stato italiano, non dell’opinione di un singolo): «la giurisprudenza di questa Corte in tema di titolarità del potere normativo in materia di tutela delle minoranze linguistiche, dopo una fase nella quale era stata affermata “l’esclusiva potestà del legislatore statale” in ragione di inderogabili “esigenze di unità e di eguaglianza” (sic!), ha poi progressivamente riconosciuto anche un potere del legislatore regionale, sia pure entro limiti determinati (bontà loro…, NdR). Ma è indubbio che, se questo riconoscimento può consentire un intervento del legislatore delle Regioni anche a statuto ordinario […] esso certamente non vale ad attribuire a quest’ultimo il potere autonomo e indiscriminato di identificare e tutelare una propria “lingua” regionale o altre proprie “lingue” minoritarie. Né, tanto meno, può consentire al legislatore regionale medesimo di configurare o rappresentare, sia pure implicitamente, la “propria” comunità in quanto tale – solo perché riferita, sotto il profilo personale, all’ambito territoriale della propria competenza – come “minoranza linguistica”, da tutelare ai sensi dell’art. 6 Cost: essendo del tutto evidente che, in linea generale, all’articolazione politico-amministrativa dei diversi enti territoriali all’interno di una medesima più vasta, e composita, compagine istituzionale non possa reputarsi automaticamente corrispondente […] una ripartizione del “popolo”, inteso nel senso di comunità “generale”, in improbabili sue “frazioni”».
Ora: qui è in discussione un principio logico fondamentale: chi, se non chi è direttamente coinvolto (vale a dire i Piemontesi stessi) può, in ultima analisi, stabilire “di configurare o rappresentare, sia pure implicitamente, la “propria comunità in quanto tale”? La “propria”? E di chi, se no? Dell’impero romano? O dovremmo forse chiedere permesso a qualche prefetto, o super-commissario nominato dall’onnipotente governo italiano per decidere chi siamo, come vogliamo chiamarci e come ci piace parlare?
Ma come si può affermare, nel 2010 (ma queste cose, davvero possono succedere solo in Italia), che la Regione non può “nemmeno implicitamente” (!) “configurare o rappresentare, la “propria” comunità in quanto tale […] come “minoranza linguistica”? Bella davvero, questa “repubblica”!
Italia: uno Stato plurilingue e multinazionale
E poi, non è affatto “evidente” (anzi, proprio il contrario!) “che all’articolazione politico-amministrativa dei diversi enti territoriali all’interno di una medesima più vasta, e composita, compagine istituzionale non possa reputarsi automaticamente corrispondente […] una ripartizione del “popolo”, inteso nel senso di comunità “generale”, in improbabili sue “frazioni”. Questa, purtroppo o per fortuna, è la realtà: l’Italia è una realtà plurilingue e multinazionale (e una di queste nazioni è proprio il Piemonte), formata da popoli assai diversi (antichissimi e tutti con una propria dignità: qui di “improbabile” ci sono solo certe realtà virtuali che si vorrebbero spacciare per necessarie).
Cosa significa, poi, il termine “generale”? A cosa si riferisce? Noi Piemontesi siamo in tutto il mondo, e ci siamo sempre fatti onore: le nostre qualità, fuor di retorica, sono ovunque riconosciute. A quale “generalità” ci riferiamo, poi, visto che noi confiniamo direttamente con il mondo francofono e con quello germanico, e che Torino è più vicina a Berlino che a Bari (bellissima città, ma non è colpa di nessuno se in Valsesia si parla l’antico tedesco e a Bari no: è la storia, e la geografia). Perché volerci a tutti i costi parte di un tutto, una “frazione” indistinta di una generalità che di noi non vuol nemmeno sentirne parlare? A chi giova tutto ciò?
I Piemontesi discriminati
Quel che si percepisce dalla sentenza è la sua cura maniacale per i “distinguo” e l’aria di divieto che sta alla base della ratio che l’ha ispirata (nel solco, c’è da dire, della lunga tradizione italiana a riguardo): il “no, tu no!” è in agguato a ogni riga. Per esempio: «parimenti fondata, per gli stessi motivi, limitatamente a ciò che riguarda la “lingua piemontese”, è la questione relativa all’art. 2, comma 2), lettera c), che attribuisce agli enti locali la facoltà “di introdurre progressivamente, accanto alla lingua italiana, l’uso delle lingue di cui all’articolo 1 nei propri uffici ed in quelli dell’amministrazione regionale presenti sul territorio”.
E perché non dovrebbe essere così?
In tutta la sentenza la legge 482 è usata come alibi per cassare il piemontese (e intanto, proprio in queste settimane, l’italiano anzi: la “lingua” italiana è stata esclusa dal novero delle lingue d’uso dell’Unione Europea).
I Piemontesi sono una minoranza etnica
C’è però, a nostro avviso, un punto veramente centrale della sentenza ed è quello in cui si sancisce che “la lingua propria di ciascun gruppo etnico rappresenta un connotato essenziale della nozione costituzionale di minoranza etnica”.
Con il che, o i Piemontesi sono tutti muti, o (parlando una propria lingua) costituiscono una “minoranza etnica”. Concetto magari non troppo bello e che a orecchi “politicamente corretti” suona forse un po’ male, ma che è proprio l’Alta Corte che ci ricorda: e non basta certamente l’escamotage di definire la nostra lingua nazionale “dialetto” (“una variante cioè della lingua italiana”) per negare al piemontese «la qualità» o «la natura di lingua minoritaria» («patrimonio di una minoranza etnica»).
La Corte Costituzionale, con questa sentenza, con il suo voler negare l’evidenza, in realtà ha riconosciuto che siamo una minoranza etnica.
D’altronde non è colpa nostra se questa è la realtà: oltre due milioni di cittadini parlano una lingua assai differenziata dall’italiano e con una spiccata personalità (ben presente ai Piemontesi).
Inoltre il diritto all’uso della propria lingua è un diritto umano fondamentale, riconosciuto a livello internazionale (non una graziosa concessione di Roma, di cui possa disporre a suo piacere).
Gioventura Piemontèisa, n. 1/2010