Lingua madre e liturgia

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L’aspetto della lingua madre nella liturgia assume un significato rilevante grazie al Concilio Vaticano II, con la Costituzione- Sacrosanctum Concilium del 4 dicembre 1963. Sulla liturgia delle lingue “vive” al posto del latino restano comunque alcune riserve di ordine normativo-dottrinale, anche perché gli atti del Concilio stesso non deliberarono un nuovo messale, piuttosto si formulò una bozza di lavoro su tale materia. Negli anni successivi al Consiglio si modellò una liturgia che ruppe la tradizione precedente, cioè il nuovo messale alienava il rito antico senza la storica continuità espressa nei messali precedenti. La messa in latino (messale romano), mai revocata dagli atti del Concilio stesso e dunque mai messa al bando dal diritto liturgico,fu in effetti cancellata dal “Novus Ordo Missae” sotto il pontificato di Paolo VI, mentre avrebbe potuto essere mantenuta almeno in modo complementare rispetto alla lingua nazionale (ma sull’accezione da dare a questo termine torneremo dopo). A tali riserve di ordine dottrinale dobbiamo aggiungere quelli di ordine culturale. Sacrosanctum Concilium aveva promosso una normativa liturgica tendente ad “arrivare più facilmente” al cuore spirituale delle genti, integrando linguisticamente l’ortoprassi del rito in latino con la ricchezza delle altre tradizioni liturgiche, genio e cultura dei diversi popoli. Tutti hanno potuto registrare le critiche che venivano poste alla questione mnemonica della preghiera in latino, che secondo un pensiero semplicista, faceva addirittura il processo alle intenzioni della fede. Molti, anche in campo teologico, ponevano la problematica della funzione religiosa del rito in latino, non in sintonia con la concentrazione del mistero eucaristico. A riguardo si consiglia la lettura di “Introduzione allo spirito della liturgia” dell’ allora cardinale Joseph Ratzinger, per vedere del tutto ribaltate tali obiezioni. Non sempre le ispirazioni del rinnovamento approdano, anche in campo ecclesiastico ad un risultato spiritualmente e culturalmente apprezzabile.Il caso italiano è emblematico soprattutto in termini di comunicazione televisiva come fondamento dell’unità nazionale italiana e con la liturgia troviamo un’ analogia interessante.Infatti l’ evoluzione successiva a -Sacrosanctum Concilium – e la sua applicazione pratica, nella sua interpretazione di lingua volgare-lingua dello “Stato nazionale,” ha concorso a creare un sorta di livellamento sulla lingua italiana, poiché il beneficio è andato alla lingua che si assemblava dopo l’ unità d’ Italia, a nocumento delle lingue minoritarie. Il dato paradossale è che nella liturgia il latino, come lingua universale della Chiesa e perciò anche patrimonio della fede delle minoranze, è stato di fatto rimosso a favore di una lingua dello Stato che, sotto traccia, potrebbe rappresentarsi come soggetto autocefalo rispetto alle normative di carattere linguistico.
Può sembrare strano, ma anche se la tradizione liturgica del rito latino viene confermata dal Catechismo della Chiesa Cattolica del 1992, dobbiamo la possibilità “non scismatica” della celebrazione di detto rito successivamente a Sacrosanctum Concilum,grazie alla lettera apostolica- Ecclesia Dei- di Giovanni Paolo II (1988).
La dimensione universale e la dimensione minoritaria si saldano, come dice la Chiesa cattolica, nella “comprensione dell’economia sacramentale”. L’ aspetto religioso e la dimensione latina e neo-latina palesano una contiguità culturale formidabile di universale importanza anche per una minoranza linguistica, sta ricevendo, per esempio dall’episcopato francese(diocesi di Tolosa, di Bordeaux e Parigi ), un freno al motu proprio sulla liberalizzazione della messa in latino da parte di Benedetto XVI. Un segmento della Chiesa di Francia, vede nella messa in lingua latina un pericolo per l’integrità della lingua francese.
E’ il segnale che dietro l’aspetto liturgico, si possono nascondere anche motivazioni e prevaricazioni nazionaliste delle lingue maggioritarie di uno Stato nei confronti di una lingua minoritaria.

L’aspetto della lingua madre nella liturgia assume un significato rilevante grazie al Concilio Vaticano II, con la Costituzione- Sacrosanctum Concilium del 4 dicembre 1963. Sulla liturgia delle lingue “vive” al posto del latino restano comunque alcune riserve di ordine normativo-dottrinale, anche perché gli atti del Concilio stesso non deliberarono un nuovo messale, piuttosto si formulò una bozza di lavoro su tale materia. Negli anni successivi al Consiglio si modellò una liturgia che ruppe la tradizione precedente, cioè il nuovo messale alienava il rito antico senza la storica continuità espressa nei messali precedenti. La messa in latino (messale romano), mai revocata dagli atti del Concilio stesso e dunque mai messa al bando dal diritto liturgico,fu in effetti cancellata dal “Novus Ordo Missae” sotto il pontificato di Paolo VI, mentre avrebbe potuto essere mantenuta almeno in modo complementare rispetto alla lingua nazionale (ma sull’accezione da dare a questo termine torneremo dopo). A tali riserve di ordine dottrinale dobbiamo aggiungere quelli di ordine culturale. Sacrosanctum Concilium aveva promosso una normativa liturgica tendente ad “arrivare più facilmente” al cuore spirituale delle genti, integrando linguisticamente l’ortoprassi del rito in latino con la ricchezza delle altre tradizioni liturgiche, genio e cultura dei diversi popoli. Tutti hanno potuto registrare le critiche che venivano poste alla questione mnemonica della preghiera in latino, che secondo un pensiero semplicista, faceva addirittura il processo alle intenzioni della fede. Molti, anche in campo teologico, ponevano la problematica della funzione religiosa del rito in latino, non in sintonia con la concentrazione del mistero eucaristico. A riguardo si consiglia la lettura di “Introduzione allo spirito della liturgia” dell’ allora cardinale Joseph Ratzinger, per vedere del tutto ribaltate tali obiezioni. Non sempre le ispirazioni del rinnovamento approdano, anche in campo ecclesiastico ad un risultato spiritualmente e culturalmente apprezzabile.Il caso italiano è emblematico soprattutto in termini di comunicazione televisiva come fondamento dell’unità nazionale italiana e con la liturgia troviamo un’ analogia interessante.Infatti l’ evoluzione successiva a -Sacrosanctum Concilium – e la sua applicazione pratica, nella sua interpretazione di lingua volgare-lingua dello “Stato nazionale,” ha concorso a creare un sorta di livellamento sulla lingua italiana, poiché il beneficio è andato alla lingua che si assemblava dopo l’ unità d’ Italia, a nocumento delle lingue minoritarie. Il dato paradossale è che nella liturgia il latino, come lingua universale della Chiesa e perciò anche patrimonio della fede delle minoranze, è stato di fatto rimosso a favore di una lingua dello Stato che, sotto traccia, potrebbe rappresentarsi come soggetto autocefalo rispetto alle normative di carattere linguistico.
Può sembrare strano, ma anche se la tradizione liturgica del rito latino viene confermata dal Catechismo della Chiesa Cattolica del 1992, dobbiamo la possibilità “non scismatica” della celebrazione di detto rito successivamente a Sacrosanctum Concilum,grazie alla lettera apostolica- Ecclesia Dei- di Giovanni Paolo II (1988).
La dimensione universale e la dimensione minoritaria si saldano, come dice la Chiesa cattolica, nella “comprensione dell’economia sacramentale”. L’ aspetto religioso e la dimensione latina e neo-latina palesano una contiguità culturale formidabile di universale importanza anche per una minoranza linguistica, sta ricevendo, per esempio dall’episcopato francese(diocesi di Tolosa, di Bordeaux e Parigi ), un freno al motu proprio sulla liberalizzazione della messa in latino da parte di Benedetto XVI. Un segmento della Chiesa di Francia, vede nella messa in lingua latina un pericolo per l’integrità della lingua francese.
E’ il segnale che dietro l’aspetto liturgico, si possono nascondere anche motivazioni e prevaricazioni nazionaliste delle lingue maggioritarie di uno Stato nei confronti di una lingua minoritaria.

Roberto Saletta

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