Nato a Torino il 13 agosto 1830 da Giuseppe Zoppis e Carolina Piatti, Giovanni Zoppis, dopo i primi studi, fu costretto a impiegarsi come commesso in un negozio di stoffe all’ingrosso, ove – dicono le biografie – svolse i suoi compiti con puntiglio e serierà, tanto da diventare in breve tempo un punto di forza di un’attività commerciale che se gli permetteva di sbarcare il lunario (e nel contempo di studiare, attraverso il quotidiano contatto con una clientela varia per modi di vita, per censo e per grado di istruzione, i molti aspetti dell’umana natura), non poteva confarsi però all’uomo di cultura, che amava partecipare anche in veste di attore agli spettacoli delle accademie filodrammatiche, frequentare gli ambienti artistici, presenziare a tutte le “prime” che la Città offriva, entrare in amicizia con giovani o più anziani e già affermati scrittori, pittori, musicisti, giornalisti e critici, dai quali tutti risulta essere stato stimato e benvoluto.
Una malattia a quei tempi del tutto incurabile (una forma degenerativa di artrite reumatoide), che già lo aveva colpito in ancor giovane età, lo obbligò vicino ai trent’anni ad una dolorosa scelta: quella di abbandonare un lavoro che gli permetteva comunque di vivere con un qualche agio e con la prospettiva di migliori guadagni, per sceglierne un altro che comportasse una minor fatica fisica e gli consentisse di non lavorare all’impiedi e soprattutto di non salire e scendere, più volte al giorno, scalette e scale per prendere e riporre negli scaffali pezze di stoffa, come necessariamente sono adusi fare i commessi per esigenze di lavoro. Con applicazione e forte volontà studiò stenografia, superò il concorso che gli avrebbe permesso di ottenere un posto alla Camera dei Deputati, Io vinse, e anche nel nuovo impiego, seguendo la Capitale prima a Firenze e poi a Roma, si distinse per lo zelo con cui assolse ai suoi doveri.
Al teatro, non certo dissuaso dalla famiglia, che anzi lo incoraggiava a cimentarsi come attore prima e che lo incoraggiò poi quando mosse i primi passi sulla strada che lo avrebbe portato a diventare uno dei più significativi autori dell’Ottocento teatrale piemontese, si era accostato giovanissimo; e il primo successo lo aveva ottenuto con «La paja vzin al feu» nel 1860 (seguito subito da «Marioma Clarin», da «Clarin marià» e da «Chi ch’as pija d’amor as lassa ‘d rabia») dando così inizio alla sua felice stagione di drammaturgo; che passando attraverso alcune altre rilevanti opere come «Ël papà dla maestra», «Ël sistema ‘d sor Dumini», «A tuti j’uss sò tabuss», «Ël diav ch’a prédica a I’eremita», «Ij consèj ëd barba Andrea», «Ij malcontent», «Cativ consèj», «J’amis a la preuva», «La neuja», «S’i fusso sgnori», e altre di non minore importanza, si concluse nel 1870 con il dramma «Oloferne», quasi sicuramente L’ultima sua fatica, prima che lo cogliesse la morte che avvenne in Roma all’età di soli quarantasei anni nel 1876.
Lasciò, certo non in buone condizioni economiche, la moglie e sei figli: la prima – lo precisiamo per dovere di cronaca – sposata nel 1864, era quella Giuseppina Morino che aveva interpretato la parte di Brigida nella prima edizione delle «Miserie ‘d Monsù Travet» del Bersezio, allestita dalla Compagnia Toselli, e che abbandonò le scene giovanissima ancora per assolvere esclusivamente al suo ruolo di moglie e madre, ma che certo fu in grado di essergli compagna nei vari momenti di una vita non facile, contrassegnata da disguidi economici e malattie; i secondi non lasciarono invece traccia di sé in campo artistico e non ci è dato di sapere quale sorte di vita il destino serbò loro, ma si può ragionevolmente supporre che, orfani, furono aiutati a trovare una sistemazione lavorativa dalla di lui sorella, di nome Clementina, che era andata a nozze con quel Giovanni Lanza – lo precisiamo sempre per dovere di cronaca – che fu uno degli uomini di maggior rilievo della giovane nuova Italia (prima Deputato al Parlamento subalpino e poi, con il trasferimento della Capitale a Firenze e quindi a Roma, Presidente della Camera e Capo del Governo): al quale ultimo il Nostro esemplarmente non volle mai fare richiesta di aiuto alcuno, per un avanzamento nella carriera ad esempio, o altro, che in quei momenti difficili di cui prima si è detto avrebbe potuto essergli di giovamento e a recargli un qualche vantaggio soprattutto di natura economica. Rara avis!, ma indice in particolar modo di uno stile di vita, di una maniera di essere, di un comportamento eticamente sempre corretto, che oggi può apparire anacronistico, ingenuo, se non del tutto sprovveduto.
Uomo dunque di struttura morale solida e dalla conformazione modellata su principi che difficilmente avrebbero ammesso trasalimenti o sussulti dell’anima troppo intensi; più gli si confacevano, nel tratteggiare situazioni o nel raccontare vicende, la pennellata lieve dell’acquarellista, le sfumature del dialogo che vuole alludere più che chiaramente denunciare, la parola che sottende forti passioni ma quasi ha timore di alzare troppo la voce per narrarle: e infatti i personaggi dei suoi drammi e delle sue commedie paiono essere specchio di tale modo di sentire e di essere, e affascinano proprio per la loro “signorilità” (non tutti ovviamente, chè il teatro ha le sue regole!); per il linguaggio limpido e fresco (quale accurato piemontese!), anche quando una forte vena di malinconia prende a tratti il sopravvento; per il loro essere autenticamente veri.
Saranno queste le ragioni per cui la “lettura” della sua vasta produzione teatrale lascia in noi una così profonda traccia, quasi che trasferisca più direttamente, attraverso quell’intenso a tu per tu che è proprio del succitato esercizio, la sua visione di vita? Una visione per la cui comprensione abbisogniamo più di silenzi e di meditata riflessione che non di ribalte accese, con tutto ciò che luce, parole e rumori “di” e “fuori” scena comportano? Forse. Ma è ovvio che non vorremmo che tale interrogativo inficiasse il giudizio di indiscutibile “teatralità” che tutte le sue opere, anche le più modeste, hanno dimostrato di possedere.
Dell’uomo, che amici e conoscenti descrissero di modi gentili, schivo e misurato anche nei momenti di grande successo che avrebbero potuto giustificare un suo qualche atto di fierezza, parco di parole ma partecipe accorato di ogni avvenimento umano, abbiamo, sia pure sinteticamente detto. Dell’Autore meglio diranno nelle pagine a venire, critici e teatranti del suo e del nostro tempo. Anche loro, secondo lo spirito della presente collana, attraverso rapidi essenziali cenni.
Gavà da: Giovanni Zoppis, La paja vzin al feu, Ed. Il Punto/Gioventura Piemontèisa, Turin 2003