Sabato 12 aprile 2014, dalle 20, il Canté j’euv nel Roero torna a Guaren-e/Guarene, da dove è partito nel 2000. Una notte di festa per cantare, ballare, bere e mangiare, in compagnia, per perpetuare una delle più antiche tradizioni del Piemonte.
Organizzazione: Comune di Guarene e Pro-loco del Roero
Intitolazione: Il cantè j’euv 2014 sarà dedicato alla memoria di Nadia Rava e Maria Grazia Farinasso maestre a Magliano Alfieri e Castagnito, strappate alla vita prematuramente. Una vita dedicata ai bambini e all’insegnamento delle tradizioni della nostra magnifica terra.
Finalità benefiche: I proventi dell’edizione 2014 saranno devoluti a favore dell’acquisto della nuova Tac per l’ospedale di Alba e di un nuovo ecografo per l’ospedale di Bra.
Cenni di una tradizione: il Canté j’euv
Le piccole comunità rurali del basso Piemonte (la zona che oggi conosciamo come Langhe, Monferrato e Roero) hanno sviluppato nel corso dei secoli una miriade di tradizioni variamente legate al calendario delle festività cristiane. Fino a quaranta-cinquant’anni fa non c’era in pratica stagione o momento dell’anno che non fosse fortemente caratterizzato da un rito, una consuetudine sedimentata dal tempo, una festa popolare, uno spunto di aggregazione.
D’inverno erano le veglie nelle stalle (le vijà) a riunire intere famiglie al calor di fiato di bestie, stringendole intorno a racconti e canti, di primavera era il canté magg, o la festa dei coscritti, quindi al sorgere dell’estate la notte di san Giovanni con i suoi misteriosi falò in cima alle colline, e poi le sagre patronali, le feste della vendemmia e via via fino al nuovo sopraggiungere dell’inverno. Ma c’era tra tutte una tradizione particolare, forse la più sentita in certi paesi, certo la più strana, la più suggestiva ed emozionante: la questua delle uova, in lenga piemontèisa: canté j’euv.
L’allungarsi dei giorni, ai primi di primavera, l’erba nuova nei prati e la luna nuova nel cielo, l’odore nuovo della polvere delle strade e i primi tepori della bella stagione, inducevano gruppi di giovanotti a prendere la via delle cascine, nelle notti di quaresima che precedono la Pasqua. Muovendosi rigorosamente a piedi o, al più, su carri trainati da bestie, i giovani giungevano al limitar delle aie e lì cominciavano a cantare, nascosti dalla notte e avvisati solo dal cane che per lo più si univa stonatamente al coro. La canzone era una specie di filastrocca in lenga piemontèisa: “Soma partì da nòstra ca ch’a j’era an prima sèira, për vënive a saluté, deve la bon-a sèira…” Questo l’inizio. Poi seguivano altre strofe, molte altre strofe, in cui si invitava il padrone di casa a uscire e consegnare un po’ di uova. Il padrone il più delle volte usciva per davvero, magari assonnato nel primo sonno con i pantaloni ancora in mano, e faceva scivolare una dozzina d’uova in una cesta portata a braccio da uno strano figuro, il fratocin (che era poi nient’altro che un ragazzo vestito da frate).
Dunque succedeva di tutto un po’ in quei cortili di cascina illuminati solo dalla luna, quando c’era: i cantori cantavano, il padrone, o la padrona, di casa per lo più stava al gioco e, dopo essersi fatta attendere un po’, si affacciava all’uscio con le uova in mano, quindi potevano accadere molte cose: che i cantori ringraziassero, sempre con il canto, la padrona per poi riprendere il cammino verso un’altra cascina, oppure che il padrone di casa, ormai ben desto, facesse entrare in casa o in cantina i ragazzi, offrendo loro un bicchiere di buon vino rosso e tagliando il salame fatto in casa. Erano rare le volte in cui il padrone di casa non voleva proprio saperne di uscire: in quei casi i ragazzi se ne andavano maledicendo la cascina e i suoi abitanti, in particolare gli animali e il raccolto. Ma erano maledizioni bonarie e scherzose, non c’era mai reale intento di augurare sventure.
Così, con l’andar della notte, l’intero villaggio risultava animato di canto e di musica: di musica, certamente, perché i questuanti avevano sempre con sé il clarino, la fisarmonica, un tamburo o un trombone.
Certo era una festa per tutti, un bel modo di trascorrere insieme le prime notti tiepide di primavera.
Ma c’erano anche altri significati alla base di questa tradizione: le uova raccolte erano utilizzate il giorno di pasquetta per preparare una grande frittata cui era invitato tutto il paese (motivo di comunione e socializzazione); chi andava a cantare le uova era quasi sempre poco facoltoso e in penuria di mezzi, e le uova si cantavano soprattutto in quelle cascine dove c’era abbondanza di animali e quindi di ricchezza (motivo di giustizia sociale e redistribuzione del reddito); a volte i ragazzi del gruppo vendevano le uova raccolte e con il ricavato si pagavano la festa dei coscritti (in pratica la festa dei 18 anni che tutti i ragazzi di uno stesso paese facevano insieme in estate); i ragazzi spesso con il pretesto della questua delle uova facevano la corte alle ragazze, ossia le figlie del padrone di casa, e molti matrimoni sono effettivamente nati così (motivo di stabilità sociale e solidità della comunità rurale); e poi chissà quanti altri motivi, più o meno importanti, più o meno dichiarati, più o meno attendibili. Quel che c’è da dire è che per tutto il paese il canté j’euv era un momento fondamentale per ritrovarsi insieme, finalmente all’aperto, dopo un inverno passato chiusi in casa, per tutti era l’occasione di sgranchire le gambe, ristabilire un contatto con la natura, riprendere la via dei campi dopo i lunghi mesi di gelo (motivo ecologico).
Eppure tutti questi, invero tanti, motivi e significati non sono bastati per salvare il canté j’euv dall’orlo dell’estinzione. Trent’anni fa le uova non si cantavano praticamente più. Scomparse.
Sembrava persino non ci fosse mai stata una tradizione simile. Poi un giovanottone di Magliano Alfieri, certo Antonio Adriano, decise nel 1965 di riprendere per mano la tradizione. Provò a riproporla, sia nel suo paese, sia nei comuni dei dintorni. E fu immediatamente un successo.
Contemporaneamente, in Langa, precisamente nel minuscolo borgo di Prunetto, il gruppo musicale dei Brav òm guidato dal mitico Brun faceva la stessa cosa, rilanciando il canté j’euv anche nei suoi paesi. Il canté j’euv era salvo. Da allora la tradizione non si è mai più persa […]
Ed anche ai giorni nostri, tempi di globalizzazione e troppo spesso di individualismo, la tradizione rimane viva e attuale, portando generazioni diverse a ritrovare il piacere di mettersi in cammino nelle sere di primavera, esprimendo nel canto e nella musica il desiderio di ritrovarsi insieme.