Piemonte sovrano

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Nell’ultima ventina d’anni si sono moltiplicate a non finire le riletture e le critiche del cosiddetto Risorgimento. Sono ormai centinaia i saggi, gli studi e i volumi che analizzano tutti gli aspetti di quel periodo così importante, complesso e al tempo stesso oscuro della Storia d’Italia. Quello che fino alla fine degli anni Ottanta era un totem e un tabù è stato via via dissacrato, fino ad arrivare alla situazione del giorno d’oggi, dove a una visione totalmente agiografica e idealizzata ne è stata sostituita un’altra dove non solo i «padri della patria» fanno la figura di ladri, profittatori e puttanieri, ma dove la stessa ratio del processo storico che portò all’unificazione statuale italiana viene messa in discussione.

Da un punto di vista del tutto unilaterale e irreale tipo libro Cuore si è scesi a una brutta e sporca storia a metà tra «Alì Babà e i quaranta ladroni» e «l’uomo che guarda dal buco della serratura». Quelli che per oltre cent’anni furono presentati come semidei senza paura, dalla triade Cavour-Mazzini-Garibaldi a Vittorio Emanuele, vengono ora ridotti – quando va bene – a delle macchiette. Quando va male, a dei loschi figuri e a dei trafficanti senza scrupoli – negrieri, assassini, terroristi e fedifraghi. Insomma, ormai, parlar male del Risorgimento e del modo in cui venne «fatta l’Italia» va decisamente di moda.

Gli Italiani forse non si avvedono che così facendo segano il ramo dell’albero sul quale riposano: certamente le modalità con cui venne cucito lo Stivale non furono le migliori possibili, ma resta il fatto che ciò che storicamente si determinò fu la creazione del Regno d’Italia sotto Casa Savoia, nei modi e nelle forme che si realizzarono. Altri modi non ce n’erano. Da un punto di vista italiano aveva certamente ragione Amendola, quando affermava che il processo che portò allo stato unitario costituiva «l’eredità più rivoluzionaria della nostra storia». Attaccare il Risorgimento e dissacrarlo significa mettere in discussione la stessa ragion d’essere e la necessità storica dell’esistenza dell’Italia in quanto Stato. È per questo motivo che esso è stato sempre messo al riparo dalle critiche. Di più: è sempre stato presentato come un’epopea irripetibile, una sorta di saga nazionale popolata di eroi. Tanto più preziosa perché gli Italiani per «fare l’Italia» non fecero proprio nulla, tanto che per mascherare la completa apatia degli italiani verso quello che avrebbe invece dovuto essere un processo che li coinvolgeva direttamente e che non avrebbe dovuto limitarsi a un’operazione politico-militare giocata tra l’Inghilterra e il Piemonte a fini religiosi e dinastici, si dovettero pompare all’inverosimile episodi senza alcun momento come le «cinque giornate di Milano» o la scaramuccia di Curtatone e Montanara, al fine di poter costruire almeno un simulacro di un’epopea davvero «nazionale» e non limitata soltanto al Piemonte e a Casa Savoia – sostenuta, per giunta, dalla Francia.

Oggi che il Risorgimento è ormai inguardabile la linea di difesa di coloro che vogliono tener in vita a tutti i costi la vacca sacra dell’idea dell’Italia «una e indivisibile» si è spostata dall’intangibilità del processo storico alla critica del modo con cui si realizzò. Vale a dire che si accetta obtorto collo un’interpretazione molto più critica e meno romantica, ma non si mettono in discussione i motivi che portarono alla sua realizzazione.

 Un “processo di sostituzione” per mettere i Piemontesi dalla parte dei “cattivi”

Al di là delle critiche, anche feroci, a questo o quel protagonista o a singoli avvenimenti contingenti, si vuole in questo modo salvaguardare l’idea dell’ineluttabilità dell’«unificazione» italiana, cosa, invece, del tutto falsa.

Si è passati dall’assunzione di uno schema del tipo Risorgimento sì/Italia sì a uno del tipo Risorgimento no/Italia sì, non avvedendosì però che una tale conformazione logica, oltre a costituire una contraddizione in termini, condurrà fatalmente all’altra, e ultima, conclusione: Risorgimento no/Italia no.
Ed è così, sulla linea di questo schema di pensiero, che si è sviluppata negli ultimi anni tutta una pubblicistica che, nel tentativo di salvare il salvabile (il nocciolo dell’idea della giustezza in sé e della necessità storica dell’unificazione della penisola) ha preso di mira il modo e i tempi e le forme con cui tale processo storicamente si realizzò. Giungendo anche a indicare dei precisi colpevoli, vale a dire i Piemontesi, nel tentativo di giustificare il fatto, sotto gli occhi di tutti, che in Italia non funziona niente: si cerca così di addossare al nostro popolo una sorta di peccato originale, che ci tenga in soggezione e di cui dover chieder scusa per sempre.

Si è così assistito all’esaltazione del massone milanese Carlo Cattaneo (che, al pari di molti suoi compari e a differenza dei nostri giovani soldati mandati a morire sui campi di battaglia preferiva il buen retiro in Svizzera, tranne poi criticare la Dinastia e i Piemontesi), alla riabilitazione dei briganti meridionali, fatti passare per martiri e per vittime di presunte atrocità e addirittura di “pulizie etniche”, all’esaltazione di tutti i Regni preunitari (salvo il Regno di Sardegna, definito spregiativamente “da operetta”). In questi giorni, addirittura, risulta possibile presentare a Torino un film realizzato dal direttore del Teatro Stabile tutto girato in chiave pro-briganti e antipiemontese (si è giunti al punto di disprezzare i nostri giovani mandati a combattere per esaltare rivolte organizzate dalle varie mafie e camorre…). Certo che non si può mordere la mano del padrone che ti dà da mangiare, in questo caso lo Stato italiano, ed è quindi meglio procedere al processo di sostituzione, passando dalla critica al Risorgimento alla diffamazione dei Piemontesi (le due cose sono strettamente connesse, avendo a che fare con la difesa dell’Italia a detrimento del Piemonte).

 Una falsa critica per ribadire la stessa propaganda

Assistiamo infatti in questi anni a un processo non solo di revisionismo storico, ma al tentativo di procedere alla sostituzione di una mitologia con una falsa critica, che va in realtà nella stessa direzione celebratoria e agiografica della prima. Insomma, moltissime critiche al Risorgimento non sono altro che delle false critiche, un’altra forma più sottile di propaganda.

Quindi oggi è non soltanto lecito ma quasi doveroso, per una certa «intellighenzia» funzionale al disegno unitarista ad ogni costo, sputare addosso ai Piemontesi. Tanto più se si considera che ciò serve a un’altra importante funzione, che è quella dell’auto assolvimento degli Italiani, che si sono trovati a gestire uno Stato creato da altri. Altro che balle: gli Italiani sono sempre stati «calpesti e derisi», e anche nel caso dell’unificazione nazionale non hanno combinato niente. Certo che in queste condizioni viene comodo un capro espiatorio con cui prendersela, altrimenti l’autostima va sotto zero e, addirittura per loro, questo è troppo.

Sarebbe dunque questa la Storia da ricordare e da celebrare? È questo il portato e l’eredità del cosiddetto «Risorgimento»? E ancora, risorgimento da cosa, visto che per risorgere, per necessità logica bisognerebbe prima essere morti e che l’Italia non è mai esistita prima del marzo 1861, creata, è il caso di dirlo, ad opera dei tanto disprezzati Piemontesi, mentre i vari «fratelli» tanto «pronti alla morte» aspettavano di vedere come andava a finire per poi poter approfittare della situazione, fedeli al «Franza o Spagna purché se magna»? Queste domande non sono né scontate né oziose, dato anche l’ormai sempre più insopportabile propaganda della ricorrenza del 150esimo anniversario della proclamazione del Regno d’Italia.
Ricorrenza che dovrebbe spingere gli intellettuali piemontesi a un’analisi serena e a una critica profonda delle vicende che portarono a quel processo storico, di quali ne furono le premesse e come valutarne le conseguenze – indicando, magari, delle vie alternative da percorrere per il futuro.

 Il «Risorgimento»: una tragedia per i Piemontesi

Ora, da un punto di vista piemontese il «Risorgimento» è stata una tragedia senza paragoni. Per dirla con Machiavelli, stando alla “realtà effettuale della cosa” esso ha condotto, tra l’altro, alla scomparsa dalla scena storica del Piemonte-Savoia, ha diviso il vecchio Stato tra Italia e Francia dopo oltre sette secoli di esistenza indipendente, ha causato la diaspora dei Piemontesi (milioni di nostri compatrioti sono stati costretti a scappare, cercando all’estero la vita che veniva loro negata in patria), migliaia e migliaia sono stati ammazzati in guerra dallo Stato italiano – e basta farsi un giro nei nostri paesi per vedere gli esiti della pulizia etnica italiana: è tutto una lapide, paesi e borgate che oggi contano poche anime sopportarono decine, quando non centinaia di morti «per la patria».

Cos’abbiamo dunque da festeggiare, noi Piemontesi? A parte il fatto che la situazione non induce nessuna persona sana di mente a festeggiare alcunché, a meno di non avere una buona dose di masochismo e/o di sindrome di Stoccolma, limitandoci ai fatti e giudicando la pianta dai frutti che produce, possiamo affermare senza tema di smentita (i risultati sono sotto gli occhi di tutti – in tutti campi: dalla qualità della vita nelle nostre città, alla sanità, alla cultura, all’assoluta mancanza di speranza che ha preso la nostra gente) che la mala pianta italiana ha prodotto soltanto frutti marci.

Da un paese europeo e rispettato da tutti (e basta vedere quel che ne dicevano gli Inglesi) siamo scivolati in uno Stato-mafia fuori dal contesto civile, simile per molti aspetti a una realtà come l’Albania: dal «bel paese che il monte, il mar e gli appenin circonda» siamo scivolati nello Stivale delle cinque mafie (nessun altro posto al mondo presenta cinque organizzazioni criminali autoctone, per giunta di valenza internazionale). Quella che era una cultura specifica e originale rischia oggi di scomparire sotto la pressione di un modello mediterraneo e levantino che ci si vuole imporre con la forza (basti pensare all’omologazione forzata della lingua, della cultura e dei gusti a un modello romanesco-napoletano, sostenuto dalla televisione, in un contesto sociale e politico completamente egemonico e a noi estraneo ed ostile).

Per non parlare del drenaggio di intelligenze, di uomini, di idee e di risorse a cui i Piemontesi assistono impotenti da oltre un secolo e mezzo, che ha portato a un incredibile impoverimento di Torino e del Piemonte e a una loro marginalizzazione che sembra inarrestabile.

È inevitabile tutto ciò? Era necessario dare il via al processo di suicidio collettivo che portò al trattato di Torino, con la relativa cessione di Nizza e della Savoia, e quindi all’annullamento del nostro Stato, che portò inevitabilmente all’estinzione della Dinastia (la più antica d’Europa) con la quale, volenti o nolenti, il Piemonte si identificava?

 Riconquistare la consapevolezza, liberandoci uno ad uno dai “consigli per gli acquisti”

Qual è il futuro del popolo piemontese – oltre tre milioni parlano ancora la lingua – in una realtà mondiale incredibilmente complessa, policentrica e carica di incertezze? Cosa si può fare per rimediare agli errori di allora?
Sono solo alcune delle molte assai gravi e urgenti domande che i Piemontesi, o meglio le loro élite culturali e politiche, dovrebbero porsi con urgenza, cercando di darsi delle risposte e di indicare delle strade percorribili che portino a uscire dalla situazione apparentemente senza scampo nella quale ci si è venuti a trovare.
Risposte e strade che non possono trovarsi in un contesto italiano, dal momento che le condizioni al contorno entro le quali ci troveremmo a operare finirebbero inevitabilmente per ricondurci in una situazione che ci vedrebbe oppressi e soccombenti. La strada che ci porterà al nostro domani dovrà quindi necessariamente prendere avvio dall’assumere coscienza della nostra specificità di popolo, per conseguire via via sempre nuovi spazi di libertà e di sovranità, nel quadro di un’autonomia dinamica adatto alla realtà dei nostri giorni. Ciò potrà essere realizzato esclusivamente facendo forza sul nostro glorioso passato e comprendendo quali sono stati i nostri errori: la nostra liberazione dovrà quindi essere, prima di tutto, una conquista personale, frutto di una consapevolezza e di un orgoglio che nessuno potrà più toglierci.

 

Gioventura Piemontèisa | Ann XVI  Nùmer 3 | Luj dël 2009

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