Usate la vostra lingua, lasciate perdere il dialetto

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Il centro studi per la diversità culturale del Messico (noto come Biblioteca de Investigación Juan de Córdova) ha dato il via alla campagna “Todas se llaman lenguas” (si chiamano tutte lingue, consultabile da questo sito: http://www.todas-lenguas.mx/), una campagna contro l’uso denigratorio della parola ‘dialetto’, e per la “sensibilizzazione alla diversità linguistica del paese”.

Un richiamo ad usare la parola lingua e ad abbandonare contemporaneamente il termine dialetto, termine che nelle Americhe come in Europa è stato integrato nel sistema sociale e scolastico con la precisa intenzione di eliminare l’uso delle lingue ancestrali (nel caso americano) e di quelle locali/regionali (nel caso europeo). Quella messicana è quindi una campagna di riappropriazione delle lingue storiche, campagna di cui hanno bisogno anche molte lingue regionali d’Europa, e specialmente quelle storicamente radicate sul territorio italiano.
 
E quindi ce n’è tanto bisogno anche in Italia, perché come nel resto d’Europa e nelle Americhe, il termine dialetto (insieme a patois) è diventato simbolo di arretratezza, povertà, passato. Un termine che è spesso usato in opposizione a quello di lingua, simbolo di progresso, potenzialità, futuro. Premetto subito che una campagna di questo tipo non sarebbe un ennesimo caso di politically correct, anzi. Si tratterebbe di un atto di sensibilizzazione e conseguente riappropriazione delle lingue storiche d’Italia, lingue che fanno parte della storia, della cultura e del tessuto socio-antropologico di ogni cittadino italiano, europeo, mondiale. Riappropriarsi di quelle lingue che sono state sminuite e soffocate, spesso attraverso menzogne e acrobazie intellettuali tanto vergognose quanto efficaci. Menzogne del tipo: “sono vernacoli, idiomi usati solo nel parlato”, quando piemontese, lombardo e siciliano (per fare solo qualche esempio) hanno una tradizione letteraria ben più ricca di quella basca, e vantano una storia letteraria scritta più antica di quella dell’albanese (tanto per fare un esempio).
 
Oppure il mito secondo il quale sarebbe “impossibile usare le lingue locali nelle scuole”, quando le lingue regionali d’Italia, in tutte le loro varianti, sono state sistematicamente utilizzate come mezzo d’istruzione (soprattutto, ma non solo, per l’insegnamento della lingua italiana) fino agli anni ‘20, e grandi pedagogisti come Giuseppe Lombardo-Radice conoscevano bene il valore delle lingue locali come lingue d’istruzione che potessero fare da ponte tra “il noto e l’ignoto”.
 
Oppure la scandalosa idea, sostenuta anche dall’altrimenti colto Umberto Eco, che alcune lingue siano intrinsecamente “ridicole” mentre altre sono “serie”. Qualunque linguista degno di tale qualifica sa benissimo che qualsiasi lingua ha il potenziale di essere “seria”, e che nessuna lingua nasce “ridicola”. Anzi, per creare la percezione che alcune lingue “fanno ridere” bisogna investire tempo e risorse in un’ingegneria linguistica atta ad escluderle da particolari strati sociali (tipicamente la scuola, l’amministrazione, i media), insistendo con il chiamarle dialetti, patois e quant’altro di denigratorio ed opposto a lingua. Le lingue regionali d’Italia iniziarono ad esser viste come inadatte all’uso ‘serio’ (o meglio ‘colto’) solo dopo sistematiche campagne denigratorie con la precisa intenzione di estirpare quella che un miopissimo Manzoni, ahi noi, chiamava “la malerba dialettale”. Campagne che avevano alla base la parola dialetto in chiara opposizione a quella di lingua.
 
In un mondo dove sono stati fatti sittanti sforzi politici ed economici per convincerci che i vocaboli, le pronunce e le grammatiche dei nostri avi fossero “malerba”, credo di non esagerare se dico che chiamare questi sistemi di comunicazione lingue è un atto di rivoluzione intellettuale. E se pensate che la scelta di un termine sia cosa da poco, che l’importante è rispettare il proprio dialetto indipendentemente dal nome che gli viene dato, allora chiedetevi perché non troviamo tra i prodotti della Knorr una zuppa con il nome di “Brodaglia”, o perché negli alberghi non trovate la targhetta “cesso” sulla porta dei bagni. Basta che siano puliti e funzionali, cosa importa come li chiamiamo? Importa. Importa eccome.

La ricerca psicolinguistica moderna dimostra che l’idea che ci facciamo di un oggetto dipende in parte dal nome che gli viene dato, è quello che noi linguisti chiamiamo “l’effetto connotativo” della parola. I nomi evocano pregiudizi e atteggiamenti importanti che influenzano la nostra percezione di una cosa o di un concetto. Anche se tale cosa si rivela poi positiva (per esempio, se i “cessi” sono moderni e pulitissimi o la “Brodaglia” è gustosa), la scelta del nome può influire fortemente su come la percepiamo, tanto da farci credere che Brodaglia non sia tanto buona quanto quell’altro prodotto, gastronomicamente identico, ma dal nome più positivo. Se non fosse così, le aziende di marketing non spenderebbero milioni di euro in ricerche prima di scegliere il nome dei loro prodotti.
 
Allo stesso modo, se pensate ancora che la parola dialetto non sia denigratoria, vi chiederei di ricordare le innumerevoli volte che l’emancipazione delle lingue locali o regionali è stata ostacolata con giochi di parole del tipo “ma quello è solo un dialetto”, “ma il catalano/galiziano/gallese [inserire lingua straniera riconosciuta a piacimento] è una lingua, non un dialetto”, “ma come si può insegnare un dialetto come se fosse ‘una vera e propria lingua’” (cit. del ‘dialettologo’ Michele Burgio a proposito del siciliano), e chi più luoghi comuni denigratori ha, più ce ne metta.
 
La campagna “si chiamano tutte lingue” non ha quindi nulla a che fare con il politically correct. Al contrario, rappresenta un no secco alle menzogne della pseudo-storia, un ‘no’ deciso a coloro che hanno tentato di rendere invisibile più di un millennio di storia linguistica, un no definitivo alla distinzione fasulla fra lingue e culture “alte” (leggi “potenti”) e “basse” (leggi “usurpate”). Emiliano, Friulano, Italiano, Lombardo, Napoletano, Piemontese, Romagnolo, Sardo, Siciliano e Veneto sono tutte lingue. Sono le nostre lingue, nostre non solo come cittadini italiani ma come europei e come esseri umani abitanti del Pianeta Terra. Il Lombardo è la mia lingua perché è stata la lingua dei miei padri per decine di generazioni, ma anche il siciliano, il frisone o il basco sono le “mie” lingue in funzione della loro importanza come sistemi di comunicazione della storia e della cultura europea, occidentale, umana.

Tutti diventeremmo antropologicamente e culturalmente più poveri se dovessero estinguersi il lombardo, il siciliano o il basco, così come diventeremmo più poveri se dovessero scomparire la torre di Pisa o Machu Picchu. Certo non posso negare che, da Lombardo, sarei più emotivamente colpito se sparisse il Domm de Milan piuttosto che la torre di Pisa. Ma ciò non mi impedisce di comprendere ed apprezzare il peso culturale e storico della torre di Pisa o della muraglia cinese, massime espressioni architettoniche ed ingegneristiche della storia dell’Umanità. Lo stesso vale per le lingue, tutte le lingue, massime espressioni cognitive della storia dell’Homo Sapiens, e parte integrante di quella capacità linguistica che è e rimane l’unico tratto cognitivo che ci distacca nettamente dagli altri primati. Non per nulla l’Unesco annovera Piazza dei Miracoli tra i Patrimoni dell’Umanità, così come annovera anche Emiliano, Lombardo, Napoletano, Piemontese, Romagnolo, Siciliano e Veneto tra le lingue in pericolo d’estinzione.

Ed è proprio l’Unesco a ricordarci che il pericolo d’estinzione non è né inevitabile né irreversibile, cominciando proprio con il chiamare queste lingue con il loro nome. Todas se llaman lenguas, i se ciamen tute lengove, si chiamano tutte lingue.
 
Si chiamano tutte lingue, e sono tutte manifestazioni della storia, cultura e conquista cognitiva dell’essere umano. Chi dice il contrario è perché vuole convincerci che i suoi avi erano più homo sapiens dei nostri…

Marco Tamburelli 
Docente di bilinguismo al Dipartimento di Linguistica dell’Università di Bangor (Galles).  
(Fonte: labissa.com)

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