Di Federico Garelli, senza dubbio uno dei più significativi e fecondi autori del teatro piemontese, non era possibile fino a poco meno di un ventennio fa delineare un tracciato che con rigore scientifico fornisse elementi precisi atti a comprovare gli essenziali momenti di una vita intensamente vissuta sotto la spinta di una passione per la scrittura che si misurò soprattutto col teatro, ma che non disdegnò di cimentarsi con pari entusiasmo in campo giornalistico o in quello della prosa e della poesia satiriche o d’occasione.
Di non sicura identificazione era (ma forse lo è ancora) il luogo di nascita, che alcuni volevano, e vogliono, a Torino e altri a Villanuova di Mondovì, nel 1827, senza peraltro che nessuno di essi puntualizzasse dell’anno indicato il mese e il giorno; incerta parimenti era la data della morte che avvenne nell’agosto del 1885 a Roma, non si sapeva però se il 5 o il 6; insicure o almeno non correttamente precisate alcune date di
“prime” che hanno fatto storia (e ancora la fanno), e non sorretta da documenti la sua collaborazione alla stesura e alla realizzazione della famosissima Cichin-a ‘d Moncalé, testo ispirato alla Francesca da Rimini di Silvio Pellico, redatto probabilmente ed esclusivamente dall’avvocato torinese Tommaso Villa su suggerimento e sotto la guida di Giovanni Toselli, il più grande attore e capocomico dell’Ottocento teatrale piemontese.
Solo nel 1982, nella presentazione dell’edizione critica di tre commedie del Nostro edita dal Centro Studi Piemontesi, Gualtiero Rizzi, con la perizia che tutti gli riconoscono, ebbe modo di colmare le molte lacune, correggere i refusi, accertare date e luoghi che la vincessero sulla superficialità di alcuni estensori di “storie” che in esse s’avventurarono troppo spesso con approssimazione d’intenti, anche se per nobili finalità, e sulle fantasiose “memorie” di attori che ebbero con lui comunanza di vita, vuoi per necessità di mestiere vuoi per non sospetta amicizia.
[…] Il Nostro nato dunque nel Monregalese, nel 1827 appunto, da famiglia borghese, dopo gli studi primari e secondari, si iscrive a Torino alla Facoltà di Medicina più per volere del padre che per sua personale scelta e convinzione; per questo nella capitale sabauda, attratto dal teatro e dal suo ambiente, inizia a frequentare subito, e con assiduità, non tanto i corsi universitari quanto “una società filodrammatica” denominata L’Unione: qui scrivendo testi in lingua italiana e guidando in veste di direttore I’allestimento dei medesimi, sperimenta le sue possibilità di drammaturgo con esiti più che discreti.
È da notare per inciso che, anche quando gli arriderà il successo pieno, non abbandonerà mai del tutto l’attività in favore del mondo che oggi diremmo amatoriale non tanto per motivi economici (la percentuale sugli incassi) quanto per tastare le reazioni del pubblico di fronte a un nuovo testo e, in vista di future realiizazioni “professionali” apporre le modifiche del caso (l’intuizione, che ci piace far nostra, è di Domenico Seren Gay: non è suffragata da documenti, quindi può sembrare azzardata. Diciamo allora che se non è “vera”, “verosimile” sicuramente lo è). […]
Nel 1848 trova impiego come stenografo presso il Parlamento Subalpino, posto che terrà anche quando la Capitale viene trasferita prima a Firenze e poi a Roma (1865 e 1871). Contrarrà nel corso della sua vita due matrimoni: il primo nel 1851 con tale Virginia Brunetti, che muore, pare, di colera tre anni dopo lasciandogli un figlio; il secondo con Paolina Cappa, dalla quale ebbe tre figli. L’una e I’altra erano state attrici dilettanti. Collabora, parallelamente alla sua attività di drammaturgo, in veste di pubblicista, a giornali locali, soprattutto al Fischietto (giornale satirico torinese con rubrica dalla Città Eterna), con lo pseudonimo di Fra Lapisteno […]
L’incontro con Giovanni Toselli fu determinante per la sua carriera artistica: su suggerimento di quest’ultimo (scartata ormai l’ipotesi di una sua collaborazione all’allestimento della Cichin-a, della quale alcuni studiosi come Albina Malerba e Giovanni Tesio, oltre al già nominato Rizzi, retrodatano l’esecuzione della prima messa in scena al 1857), scrisse il dramma Margritin dle violëtte (opera che non fu possibile rappresentare data la giovane età della Tessero che avrebbe dovuto interpretare la parte della protagonista, una donna “di vita”: il testo si ispira ínfatti alla Signora delle camelie di Alexandre Dumas!) e poi di getto quello che da molti viene considerato non soltanto il suo capolavoro ma il primo e più significativo testo del teatro piemontese, e che di quest’ultimo inaugura nel contempo la più felice stagione: Guèra o pas? […]
Qui, in questa rapida carrellata sulla vita e l’opera dell’autore piemontese, è forse d’uopo fare riferimento al suo mondo poetico, permeato da sottile ironia, non disgiunta mai da malinconia, anche quando gli argomenti vengono trattati con i modi e la tecnica della farsa; alla sua abilità non soltanto nel delineare la consequenzialità delle scene per conquistare il finale in lento crescendo, ma anche per abbozzare caratteri dai tratti psicologici forse non troppo approfonditi ma certo di sicura efficacia scenica, subito decifrabili dal pubblico, che ne può rilevare, proprio attraverso le varie forzature, pregi, virtù e, quando occorra, gli inevitabili difetti.
Tai qualità ci pare vengano messe in luce anche soltanto ad una prima lettera dei testi (che ancora oggi potrebbero reggere ad una realizzazione accurata proprio per lo scorrevole meccanismo scenico e la sempre accattivante ricerca della “situazione” che di ogni spettacolo è perno fondamentale), attraverso cui possono altresì essere evidenziati la molteplicità degli argomenti trattati (spesso d’occasione; ma nobili, volutamente didascalici, di intenti morali), che trascorrono da tematiche patriottiche (la già ricordata Guèra o pas?; La scola dël soldà, La caban-a dël rè galantòm (che è ovviamente Vittorio Emanuele II) a quelle d’argomento sociale (La carità l’è nen tuta ‘d pan; L’invern dij pòver; Delfina l’ovriera; Da la povertà a la richëssa) o contadino (Ël campé e la marghera) ai vari ritratti del mondo piccolo borghese (Ij pciti fastidi, La felicità ‘d monsù Guma; Na facessia al bal masché, La cun-a ‘d Carlin): testi attraverso i quali sperimenta non soltanto le molte possibilità del linguaggio riferite ad ambienti stati e condizioni di vita diversi, ma anche i molti generi teatrali: la commedia di costume, quella brillante, il dramma storico e quello borghese, la farsa (La gabia dël merlo, Ij fòj a bèivo al cop), l’ormai affermato vaudeville (Lena dël Ròcia-Mlon), l’atto unico breve (La partensa dij contingent për l’armada), le molte traduzioni (dal Ventaglio e da Gli innamorati goldoniani che diventano La vantajn-a e J’an-namorà), e si potrebbe continuare. Ma per completare i titoli delle opere più rilevanti vorremmo citare ancora Ël birichin ëd Turin, Ij làder an guant bianch, Ël cioché dël vilage e Compare Bonòm, e concludere con i giudizi critici di due cultori del teatro in piemontese: il primo è di Massimo Scaglione che nella sua Storia dichiara che il Garelli «ricopre ufficialmente il ruolo di primo autore del teatro piemontese. Al contrario dei toni forti e risentiti di un Pietracqua, Garelli oppone un umorismo bonario, una felicissima predisposizione alla satira ed alla definizione sottile dei personaggi»; il secondo, di Gualtiero Rizzi, che così sintetizza, efficacemente, il significato di tutta l’opera del Nostro: «Forse quello che la “mitezza” in Zoppis e la “rabbia” anche ideologica in Pietracqua non hanno permesso di disegnare di Torino, è “schizzato” – se non approfondito psicologicamente – dall’ironia bonaria di Garelli, il quale forse non ci tramanda di quei tempi – con quei nostri antichi – una stampa bavarese, ma un bell’album di ricordi per un …COME ERAVAMO»
Pier Giorgio Gili
Nota biografica a: Federico Garelli, La gabia dël merlo & La vos dl’onor, Torino 2001.