Giulio Segre (1881-1952)

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A l’era nà a Turin ai 13 d’aost dël 1881 e a l’é mòrt ant la midema sità dël 1952.

Médich sirògi, docent a la clìnica ‘d Patologìa sirògica dl’Università ‘d Turin e autor ëd test sentìfich, a l’ha fàit part ëd la prima generassion d’ Ij Brandé. Mohel ant la comunità ebràica turinèisa, a l’é salvasse da le përsecussion stërmandse con soa famija Vila Turin-a a San Morissi.

Poeta sgnor ëd sentiment, soe lìriche a son seren-a e pasia come le montagne ch’a lo anciarmo.
Soa evra pì avosà a l’é La Poesia dla Montagna (Turin 1950). 

 

Montagna
Giulio Segre

 
Silensi dla montagna. La natura
l’é ‘n quàder dij pì bej, a l’é ‘n pastel
ch’a profila le sime vers ël Cél
con na fin-a continua sfumadura.
 
Giù ‘n bass son le corent d’un’aria pura
ch’a-j bësbijo a le fior sò ritornel;
i é pì ‘n là ‘nt un ripian grandios e bel
na gran tranquilità ‘d vache an pastura,
 
I é na masnà ch’a-j guerna e ch’a-j compagna,
tra mes a-i é ‘n cagnet ch’a fà la ronda,
e giàun e verd pituro la campagna.
 
Le ciòche a dan na mùsica sutila
e la pas l’ha nen l’òm ch’a la confonda…
Doss coma ‘n seugn a passa ‘l temp e a fila.

Verrayes, 17/9/1941 


Giulio Segre, mohel e poeta
di Giuseppe GoriaHa Keillah 

Giulio Segre nacque a Torino il 13 agosto 1881, figlio di Napoleone Segre e di Clotilde Jarach. Vi erano altri figli: Augusto, Mario e Lidia. Secondo Luigi Olivero, giornalista piemontese “romanizzato” e amico, la sua casa natale era la stessa di Edoardo Ignazio Calvo: l’attuale via Principe Amedeo, n. 41. Stesso destino d’esser medici, stesso destino di finire in mezzo agli ingranaggi perversi della storia e del potere, l’uno per il pensiero, l’altro per la razza. In considerazione del fatto che l’emancipazione degli Ebrei avvenne nel 1848 (così come per i Valdesi), e le due isole del ghetto non erano lontane, si può pensare che la famiglia di Giulio abbia voluto prendere una residenza all’altezza del livello socioeconomico ma senza allontanarsi troppo dal quartiere della tradizione. Il nome del padre, Napoleone, rivela un indirizzo liberale già nei nonni; che alla fine dell’800 il 48 avesse per gli ebrei torinesi ancora un profondo significato lo conferma proprio Giulio in un sonetto: 

Quaranteut! Quanti crussi e quante pen-e!
Pura, mè pare, a dì costa paròla,
coma se ‘n feu slarghèissa la soa giòla,
sentìa arbeuje ‘l sangh drinta a le ven-e. 
…………………. 
(1848, Ël Tòr, n. 31-32, 1948/9 ) 

Studiò al liceo Gioberti, con Onorato Castellino, laureandosi in medicina nel 1904. Durante la Prima Guerra Mondiale fu ufficiale medico, iniziando la pratica chirurgica all’ospedale militare di Feltre; successivamente si specializzava in chirurgìa traumatologica e infortunistica. Dedicò tutta la sua vita alla medicina, come assistente di Ottorino Uffreduzzi, come professionista e come docente alla Clinica di Patologia Chirurgica a Torino, infine facendo per quarant’anni il medico dei poveri. Pubblicò testi scientifici e d’informazione; la sua prima pubblicazione – guarda caso – fu nel 1919 nella tipografìa di Giacomo Sacerdote, tipografo, piccolo editore e… poeta. Si sposò con Cesira Jarach (1908) e si stabilirono in via Accademia Albertina 37, dove aveva anche lo studio. La sua presenza nella comunità ebraica torinese fu di primo piano: nel suo ruolo istituzionale di mohel fu una figura di riferimento per generazioni. Risulta infatti aver eseguito mille milot, di cui l’ultima pochi giorni prima della morte, il 20 novembre 1952, pochi giorni dopo la dipartita del vecchio amico Onorato Castellino. In quella triste occasione Ij Brandé-giornal ëd poesìa piemontèisa gli dedicava – l’articolo “An mòrt èd Giulio Segre”, a firma Pinin Pacòt (Giuseppe Pacotto), che richiamava i lettori al destino dei due amici verso “col àutr mond dij giust e dij pur, ant ël qual tuti doi, combin che ‘d religion diverse, a-i chërdìo con l’istessa fede, rasonà e istintiva”.
 
Come tutti i professionisti israeliti ebbe a subire le leggi razziali e, in quella triste occasione, forse la voce più solidale che gli giunse fu quella di Nino Costa, come egli stesso ricordava nell’immediato dopoguerra rendendo omaggio al poeta dël Piemont appena spirato.
 
Giulio Segre trovò la salvezza nei tempi più duri dapprima sui monti della Valle d’Aosta, dove conobbe brevemente il carcere. Uscitone con un pizzico di fortuna trovò un riparo definitivo a San Maurizio, nella casa di cura “Villa Turina”, il cui direttore era il prof. Carlo Angela, padre del giornalista televisivo Piero Angela. Il prof. Angela era uno psichiatra di vaglia con esperienze all’estero. Antifascista della prima ora, si era prestato a nascondere persone ad alto rischio nella clinica da lui diretta, aiutato e coperto in questo dalla madre superiora, suor Tecla, e da alcuni infermieri. Di quei tempi resta la testimonianza di Renzo Segre in Venti mesi. Dopo molti anni quel Carlo Angela (morto nel 1949) fu annoverato nei Giusti tra le Nazioni ed il suo nome inserito nel Giardino dei Giusti presso il museo Yad Vashem di Gerusalemme.
 
Il nostro Segre, dunque, riuscì a salvarsi. Non così la cugina Norina Tedeschi, che finiva la sua vita in un lager, la cugina che rivive in uno degli ultimi sonetti di Giulio.
 
Nella poesia di Segre non bisogna aspettarsi evidenti dichiarazioni di appartenenza, perché il rapporto tra questa e l’assimilazione (prima delle leggi razziali e prima della shoà) si manifestava solo in ambiti molto definiti e privati, con un riserbo molto… torinese. Penso che la dichiarazione più forte sia quella letta all’Università in onore di Rinaldo Laudi, medico ebreo torinese (in precedenza suo stimato studente), partigiano di GL, catturato nei pressi di Piacenza nell’esercizio della professione e “sparito” senza lasciare traccia.
 
Come molti autori subalpini delle vecchie generazioni, esordì sul palcoscenico multiforme de ‘L Birichin: le composizioni da me ritrovate non sono moltissime, ma tali da evidenziare già agli inizi una concezione della poesia piemontese agile e fuori dai cliché d’uso. In seguito collaborerà anche a ‘L Caval ‘d brôns, all’epoca il piccolo feudo di Cesare Israel Laudi (Dario Cesulani).
 
La sua presenza nel rinnovamento piemontese inizia con la pubblicazione di “A Mistral”, antologia rinominata nella IIa ed. “Diciasette poeti” (sic), e con gli Armanach diventa una costante; ancora anni dopo la sua morte, Alfredino (Alfredo Nicola) riproponeva sul Musicalbrandé i suoi sonetti ispirati alle opere liriche più famose. La sua fu una voce che parlava la lingua della nuova poesia piemontese e che seppe proporsi altresì nella prosa non narrativa, ma di critica, d’opinione, e ormai fuori da quel tono birichinòir che sapeva speziare la satira ma non il dibattito, criticare, ma non esercitare la …critica.
 
Diamo una scorsa a al volune “A Mistral”: guardare alla Provenza mistraliana voleva dire uscire dalla dialettalità e dal vernacolo, tentare strade poetiche nuove. Con Giulio Segre troviamo i nomi di Mario Albano, Carlo Baretti, Renzo Brero, Nino Costa, Salvatore Ferrero, Saverio Fino, Oreste Gallina, Giovanni Gianotti, Pinòt Casalegno, Tommaso Grosso, Armando Mottura, Alfredo Nicola, Ernesto Odiard des Ambrois, Luigi Olivero, Pinin Pacòt, Carlottina Rocco, Teresio Rovere. Il Nostro proponeva tre testi, uno di ispirazione tradizionale (La siala e la furmija), mentre gli altri due rispecchiavano nuove scelte petiche. In Agave si apre al paesaggio marino, cosa inconsueta nella poesia piemontese ( si noti che già nel 1923 pubblicò su ‘L Birichin il sonetto Tramont sël mar) ma in armonia con gli interlocutori provenzali; in Tramont contrastà il colorismo è molto raffinato e può richiamare il Pascoli di “Myricae”: 

…………..
òr argent e scarlata: viva fiama
su në sfond gris e bleu: canson d’amor
tra le miserie d’una vita grama.
Pi ‘n là nìvole nèire: an mes a lor,
temprà ‘nt èl feu, piegà come na rama,
la lòsna, bela dèl sò bel color,
viva e violenta come ‘l taj ‘d na lama.
………….. 

La sua è una poetica che nasce da uno sguardo sereno in cerca dell’armonia del mondo, una risposta fortemente affermativa alla vita ed all’impegno umano: basta leggere certi versi del tempo di guerra per averne un’idea.
 
Penso si possa affermare che Segre fu tra i primi a scoprire da “cittadino” la realtà quotidiana della nostra montagna e farne un tema poetico proprio.
 
Si poteva già prima leggere testi che esprimevano la realtà alpestre non ancora fagocitata dal turismo, ma si trattava di scritti non di penna torinese: mi riferisco a Pietro Corzetto-Vignot (Rueglio, Alto Canavese), ad Allois e Des Ambrois (Valsusa), espressioni dotte e letterarie ma comunque radicate localmente. Per il resto la poesia della montagna rifletteva il gusto urbano delle gite, della villeggiatura, e non senza un senso di benevola superiorità. Le pagine di Segre non offrono colorismo superficiale senza empatia, ma sono pervase di partecipazione piena ad una dimensione esistenziale e naturale che l’autore, dopo aver traversato la tempesta sui monti – trovandovi rifugio – sa capire e apprezzare. In apertura a “La poesìa dla montagna” confida al lettore che la sua poesia “è stata da me vissuta in un periodo di caccia aperta, nel quale ho dovuto recitare la parte della selvaggina. E la montagna ospitale mi ha difeso.” In sintonia con la montagna, con la natura, coglie sensazioni forti e si pone in ascolto partecipe di quella gente che, in maniera diversa, arranca accanto a lui. Accanto a quella gente ha passato le sere d’inverno nella stalla, senza perdere la fiducia nel domani. Anche negli anni più neri che grigi, dal ‘43 alla fine della guerra, Segre non parla mai con accenti di disperazione o di rinuncia.
 
Ho tentato di delineare un ritratto di poeta piemontese, medico di vaglia e mohel.
 
Proviamo – in chiusura – a leggere una sua autopresentazione, scritta e pubblicata nel momento pieno di gioia non meno che di dolore che è l’immediato dopoguerra: 

Mè ritrat
 
A la scòla ‘d mè pare e ‘d mia mare
L’hai marcià sui binari dl’onestà
A la mòda dij fòj d’un temp passà
Ch’a l’han lassame dle memòrie care.
Con mi le Muse son mai stàite avare,
E tuti ij vers ch’i l’hai scarabocià
Son sostnusse ‘n sle nòte dla bontà:
L’hai mai rusà, l’hai mai piantà ‘d cagnare.
Son sirògi e ‘l travaj l’é na bataja
Che tuti ij di combato con passiensa
Për mantnime lontan da la marmaja.
L’hai nen speransa ant la riconossensa:
Quand ij bufon l’han travajà sul serio
Son stàit drinta dcò mi, parèj ‘d Broferio.
 
(El Tòr, n. 18, 22 giugno 1946)

 
Giuseppe Goria


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