Il “grande vecchio” del giornalismo italiano, Indro Montanelli, nel fondo del Corsera del 2 giugno (1998 – “Caro Bossi, alla tua scuola dico no”) prende decisamente posizione, quasi in rappresentanza di tutti gli “intellettuali”, a favore della lingua italiana, dipingendo tutto ciò che è “locale” e non inserito o inseribile nel quadro “italiano” come «dialettale» e – di fatto – inferiore.
[…] Interessa qui fare un paio di puntualizzazioni sul ragionamento dell’articolista del Corriere. Ragionamento importante, perché significativo e rappresentativo di tutti quelli che «pensano» e che «pensano, parlano e scrivono in lingua italiana.
1 ) Montanelli riconosce apertamente ed esplicitamente il ruolo “politico” e “unificatore” della lingua italiana nel neonato Stato post-unitario ponendola, nel contempo, ad un livello superiore alle sue stesse istituzioni: la lingua è la cultura di un popolo, e, quindi, anche del popolo italiano («ammesso che quello italiano sia un popolo»).
2) Dalla constatazione che la lingua è la cultura di un popolo e che tale popolo cesserebbe di essere tale senza la propria lingua discende, per conseguenza logica, che la lingua è il bene più prezioso che un popolo possieda, bene da tutelare a qualunque costo.
3) Da ciò deriva – ergo – che anche quelli come Montanelli che affermano, con spirito e cultura tipicamente italiani, «per questo Stato (…) non sarei disposto a battermi nemmeno a briscola» riconoscono tuttavia che, senza lo scotch della lingua italiana – usata da sempre come instrumentum regni – «temo anzi sono sicuro che non soltanto l’amministrazione, il fisco, i tribunali, le questure, ma tutto diventerebbe dialettale, compresa la cultura e il suo fondamentale strumento, la lingua».
Ora, noi non abbiamo intenzione di voler fare diventare ” dialettali ” tribunali e questure (anche perché lo sono già, nell’essenza e nel modo di esprimersi) e non ci piace giocare a briscola, ma il problema (politico, oltre che di sostanza) è quello che noi non parliamo dialetto, ma una lingua diversa dall’italiano e che non ha l’italiano come riferimento.
Dire “lenga piemontèisa” non è un modo più fine per (non) dire “dialet”, ma la presa di coscienza di appartenere a un gruppo linguistico diverso da quello italiano, con “una storia e una gloria sua”.
Senza un’assunzione di coscienza della propria diversità culturale e linguistica i Piemontesi non arriveranno da nessuna parte. Perché il Montanelli di turno potrà sempre “insegnarci” che fino al ‘500 tutta l’Europa che «pensava», pensava in italiano (in un momento in cui la parola “Italia” aveva un’accezione completamente diversa) o che «la lingua italiana fu la prima ad avere una grammatica, una sintassi, un vocabolario» (cosa non vera e, comunque, di nessun valore: forse che chi arriva prima si “piazza” meglio?).
In Piemonte l’italiano si diffonde come lingua di comunicazione soltanto dopo la II guerra mondiale, non ai tempi di Carlo V! In Piemonte, prima dell’Alfieri, l’italiano non era nemmeno la lingua di cultura, a differenza degli Stati italiani. Nel 1861 appena il 7% della popolazione del Regno d’Italia si esprimeva in italiano standard. Il 93% parlava “dialetto”. Voler far discendere un presunto sentimento di unità e identità nazionale dalla lingua è, in Italia, letteralmente una scemenza, una «patacca», come dice Montanelli nel suo articolo.
Articolo che si conclude attaccando chi vuole (e non sono solo i leghisti) introdurre la lingua locale nelle scuole: la “linea del Piave” degli intellettuali italiani è stata raggiunta. Per questi signori la “vacca sacra”, che è la lingua di Stato, non può e non deve venire toccata proprio per il suo ruolo politico e di identificazione. Altrimenti «insegnerete alle nuove leve (…) la storia degli Insubri, di cui vi proclamate figli, che è come dire figli di padre ignoto, che è come dire figli di puttana».
Per parte nostra non ci scandalizzeremmo di insegnare ai nostri figli la storia degli Insubri, o dei Salassi, o dei Taurini, visto tutte le idiozie che ci vengono propinate a cominciare dai sette re di Roma. I nostri padri e le nostre madri, poi, non sono ignoti. Le nostre madri e i nostri padri sono Piemontesi. Come noi.
La puttana la lasciamo fare ad altri.
Carlo Comoli
Gioventura Piemontèisa | Giugn/Luj 1998