Nei nomi si conserva la memoria | Le ricerche di Raul Capra nel Cusio al Corso di Novara

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Gianfranco Pavesi e Raul Capra.

Ricordiamo che sotto l’insegna del Centro Studi Piemontesi, Nuares.it, l’Academia dal Rison e la Gioventura Piemonteisa, il ciclo si propone di valorizzare il “Novarese: parliamoNE… p arliamoLO!”, “tra lessico, letteratura, curiosità”.

Gianfranco Pavesi, introducendo con brio l’incontro, ha subito con legittimo orgoglio espresso la propria soddisfazione di poter presentare due opere di Capra che a pieno titolo s’inseriscono nello spirito delle associazioni citate, ovvero: “La pradéra perduta” (2010) e il primo volume di “Ecolessico del Cusio” (2013), pubblicati sotto la prestigiosa egida del Fai. E certamente la riunione non poteva riuscire più sincera e partecipata, per l’attenzione dei presenti alla proiezione di immagini di scene di vita, di lavoro e di luoghi del Cusio primo ’900 puntualmente illustrate con esprit de finesse da Capra.

Mentre la “Pradéra” è dedicato al lessico degli scalpellini – “ël picasass”- nell’ambito prevalente delle cave dismesse di Alzo, ora sopravanzate dall’irrompere della selva a invadere il territorio e in tal senso appare ingiustificato il silenzio delle istituzioni locali di fronte all’invito di Capra a istituirvi un parco naturale, il secondo volume è dedicato a “ambiente e vita di lago”, armoniosamente suddiviso in lemmi dedicati al tempo, ai venti, acque e terre, imbarcazioni e pesca, “relitti di folclore magico”.

Con una vera e propria lezione di metodo, storico e critico, Capra ha “raccontato” la vita di lago, soffermandosi su alcune parole, come la “baltresca” o la “góndula”, imbarcazioni da lago, con raffinati paragoni con altre località, ad esempio la gondola veneziana, tra arte e storia, ma sempre tenendo vivo il fermento linguistico che anima l’espressione dialettale e mai disgiungendo l’etimologia dal territorio dal dato storico: illuminante, in tal senso, e gustosa la ricostruzione etimologica del detto, peraltro extraterritoriale, “andà a balòn”, risalente alle disavventure aerostatiche dei pionieri fratelli Gerli (1784).  

Giustamente ha sottolineato Pavesi l’imponente bibliografia che documenta il lavoro di Capra, che intreccia sapientemente dato scientifico e citazione letteraria, con l’intento, memorialistico e affettivo, di “salvare il salvabile” di un microcosmo linguistico (e non solo) perduto, sospinto in questo anche da ragioni familiari che riconducono all’infanzia dell’autore, nativo di Orta. Una ricerca nata sul territorio, interrogando i superstiti a integrare appunti presi in anni remoti, pur nella consapevolezza, come scrive Capra nell’introduzione all’“E colessico”, di compiere opera “prematura e tardiva” a fronte di un impoverimento lessicale molto forte e posto che la capacità “innovativa del dialetto finisce a metà Ottocento”: i primi dizionari nascono per codificare la sua decadenza a vantaggio della lingua italiana, simbolo di Unità nazionale (sic! n.d.r.).

E altri volumi annuncia Capra, a cominciare dal prossimo sugli “Idronimi del Piemonte Nord-Orientale”, proseguendo la sua appassionata e intelligente “recherche”, se “è nei nomi che si conserva la memoria”. Roberto Cerati, da poco scomparso, una grande voce dell’“alfabeto Einaudi”, ringraziando Capra gli ha scritto: “trovo anche la lingua del mio paese”.

Sollecitato da Pavesi, Capra ha ricordato i “cinch dë Noara”: “li ho visti nascere” e quando Sandro Bermani recitò per la prima volta in pubblico una sua poesia per festeggiare Emanuelli e Mario Bonfantini, reduci vittoriosi dal premio Bagutta 1960, all’albergo Unione o la mostra al convento delle Orsoline (che non c’è più) di Orta, 1959, di nove pittori novaresi: Tencaioli, Desuò, Bozzola, Polver… Erano i tempi in cui Capra era alla “Gazzetta di Novara”, sotto l’influenza, il giornale, del “padre-padrone” senatore Rossini…
Due ore interessanti e divertenti, a ritmo sempre sostenuto, quasi un’immersione in altri tempi: e mi tornava alla mente, allontanandomi, un’estate lontana, nel luminoso salotto della casa di Tonino Guerra a Santarcangelo, quando mi parlava delle sue poesie in dialetto romagnolo, della sua “felicità” di riuscire ad arrivare al lettore, al suo “capire”.

er. pe. (Corriere di Novara, 14.12.2013)

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