Sui mutilati e invalidi della grande guerra linguistica (e non vale solo per la Sardegna…)

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Il problema sollevato da Cinzia è un problema molto serio: Il problema di Cinzia: premiare la maggioranza discrimina la minoranza?
Esiste una minoranza consistente di Sardi che ha soltanto una competenza passiva della nostra lingua e che reclama il proprio “diritto all’ignoranza”.
Questa minoranza non può essere ignorata per tre ordini di motivi: 1) la sua consistenza numerica: circa un terzo dei Sardi si trova in questa situazione; 2) La sua aggressività: si tratta, in genere, di individui che finora hanno goduto dei privilegi che, paradossalmente, il monolinguismo assicurava loro e che si è dotata di un ideologia molto articolata e pervasiva per giustificare questi privilegi; 3) si tratta di vittime: questa minoranza è costituita dai mutilati e invalidi della guerra linguistica combattuta in Sardegna a partire dagli anni ’60 del secolo scorso.
L’evidenza dei numeri (i Sardi che dichiarano di avere una competenza attiva della loro lingua sono 1l 68.4%) chiarisce abbondantemente il primo punto.
Per quanto riguarda il secondo punto (l’ideologia e i propagatori di questa) faccio copia e incolla dal mio libro: “Chiarito questo punto, l’analisi compiuta da Anna Oppo sull’insieme dei dati si può riassumere nel modo seguente: «L’insieme di questi dati ha evidenziato tanto il declino delle parlate locali in ambito familiare man mano che si passa dalle generazioni più anziane a quelle più giovani quanto l’uso maggioritario dell’italiano nelle cerchie extra-familiari e nelle situazioni comunicative più formali e più alte. E, come si è già descritto, l’uso dei due diversi codici sembra segnare delle “fratture”: fra generi ed età, fra bassa e alta istruzione, fra rurale e urbano, fra ceti e classi sociali».
Se da un lato è doveroso rimandare alla ricerca sociolinguistica coordinata da Anna Oppo, sia per la mole di dati che presenta, sia soprattutto per definire quelle che lei chiama “fratture” («fra generi ed età, fra bassa e alta istruzione, fra rurale e urbano, fra ceti e classi sociali»), bisogna anche osservare che diverse delle analisi di questi dati e delle differenze nel comportamento linguistico dei vari gruppi sociali, effettuate dai vari curatori, compresa la stessa Oppo, sono viziate da preconcetti ideologici: l’abbandono del sardo viene continuamente presentato come strettamente legato all’emancipazione culturale e sociale dei sardi. In questo è testimonianza dell’adesione ideologica del ceto accademico al paradigma della modernizzazione, al cui interno il passaggio dal sardo all’italiano è visto come un passaggio fra l’arretratezza e la modernità, come se fosse un dato oggettivo e non da sottoporre almeno a verifica empirica (posto che si possano definire “arretratezza” e “modernità” in termini scientifici, oggi poi). La scelta per l’italiano sarebbe determinante per il raggiungimento di questa emancipazione, senza fare riferimento, per esempio, al fatto che, malgrado ormai la stragrande maggioranza dei giovani (92% delle ragazze, 86% dei ragazzi) apprenda l’italiano come L1, la dispersione scolastica in Sardegna si presenta ancora in proporzioni gravissime, oscillando sempre intorno al doppio della media italiana, anche questa altissima rispetto alla media europea. Come vedremo al Cap. 3, in effetti, la lingua che i ragazzi sardi apprendono a casa e dall’ambiente circostante è molto lontana dall’italiano standard, che la scuola pretende che loro conoscano.
I fattori che hanno portato molti sardi – ma sempre, comunque, una minoranza di essi – ad abbandonare almeno in parte la loro lingua, si ritrovano in tutto il mondo e in tutto il mondo stanno mettendo a rischio l’esistenza di migliaia di lingue minoritarie.
Oppo ne è cosciente e infatti cita, tra gli altri, in una nota a pag. 10 il seguente passaggio di Labov, scritto a proposito del comportamento linguistico delle donne negli Stati Uniti: «Le donne […] sono più sensibili degli uomini al modello di prestigio. Esse mostrano cioè una più netta inclinazione del mutamento di stile, specialmente all’estremo più formale dello spettro». (Labov 1972:335)
Ciononostante, Oppo cerca di attribuire a cause “specificamente” sarde – in effetti si tratta di stereotipi – il comportamento analogo delle donne isolane: «Come non capire la prontezza delle donne che, nell’impadronirsi, per prime, dell’italiano e della scuola, pensavano di liberarsi contemporaneamente dagli scialli, dal confinamento nella casa, dai gesti di deferenza quotidiana nei confronti di padri e mariti come quello di sfilare loro gli stivali e di lavargli i piedi una volta che questi rientravano a casa? E magari di non dover svolgere più il ruolo di coloro che piangono il figlio morto ammazzato?». (Le lingue dei Sardi:6)
Quante donne portano ancora lo scialle in Sardegna? Chissà, ma le donne che dichiarano di parlare il sardo sono ancora il 62,6%.
[…]
Nel rapporto ragazzo/ragazza, i ragazzi sardi – ma, sebbene in misura minore, anche le ragazze – assumono un’identità linguistica molto differente da quella che li connota come membri del gruppo dei pari e questa, nella stragrande maggioranza dei casi, esclude qualsiasi componente sarda.
In proposito, Anna Oppo propone la spiegazione seguente: «Ma sono soprattutto le differenze socio anagrafiche degli intervistati a pesare in modo deciso. In primo luogo a prediligere le parlate locali sono gli uomini, soprattutto se adulti. Inoltre diventa estremamente significativo il peso del titolo di studio, della posizione professionale e del ceto sociale di riferimento: la parlata locale è preferita nelle relazioni amicali dai meno giovani, i meno istruiti e coloro che hanno professioni di tipo manuale. Sarà forse in ragione della giovane età, ma all’interno delle coppie la lingua prevalentemente usata sembra essere l’italiano, e solo in una percentuale piccolissima si usa la parlata locale ed entrambi i codici. Quest’ultima tendenza sembra condivisa solo per lo più da coloro che vivono nei comuni più piccoli». (Le lingue dei Sardi: 28)
L’accademica cagliaritana Anna Oppo spiega in questo modo i motivi che porterebbero i giovani ad adottare l’italiano come lingua del rapporto uomo-donna: chi parla in sardo è vecchio e socialmente poco competitivo, insomma, poco istruito, poco abbiente e abitante di un paesino arretrato. Con la sua generalizzazione, Anna Oppo esprime i pregiudizi dei ceti dominanti sui sardoparlanti, forse interiorizzati dalle giovani donne sarde.”
Il ceto rappresentato da Anna Oppo lotterà con le unghie e coi denti per difendere i propri privilegi e la propria visione del mondo che questi privilegi giustifica.
Meglio prepararsi: i gorgeggi isterici di Gianluca Floris sono soltanto l’overture.
Ma circa un terzo dei Sardi, soprattutto donne, è rimasto escluso dall’interazione linguistica nella nostra lingua e non ha avuto la possibilità di apprenderla: sarebbe troppo facile liquidare queste persone come “mandrone”: costoro sono vittime della guerra psicologica esercitata dalle classi dirigenti sarde nei confronti dei bambini, prima a scuola, poi anche a casa e nel gruppo dei pari:
“Questa tabella – per la quale non si indica con precisione l’età degli intervistati, ma dovrebbe riguardare i bambini dai 6 agli 8 anni, visto che i dati, grosso modo, coincidono – mostra come, già all’interno della famiglia (allargata) e del gruppo dei vicini/compagni di giochi e di scuola, le ragazze tendano ad essere escluse dalle interazioni in sardo, molto più che non i ragazzi. L’unica eccezione è costituita dai nonni, che ormai sono diventati l’agente principale della trasmissione generazionale del sardo.
I più resoluti nell’escludere le bambine dalle pratiche linguistiche in sardo (o almeno da quelle esclusivamente in sardo) sono proprio i membri del gruppo dei pari: fratelli e sorelle, compagni di scuola e di giochi: già presto il sardo sembra delinearsi come lingua che determina un’identità prettamente maschile.
Naturalmente, occorrerebbe uno studio longitudinale per stabilire se i dati corrispondenti alle diverse fasce di età corrispondano effettivamente a diverse fasi del percorso linguistico dei ragazzi sardi (come proposto in §4.1), o se invece le differenze indichino un effettivo aggravarsi della situazione. Le piccole differenze di età tra gli intervistati sembrano comunque indicare che si tratti di fasi differenti del percorso di acquisizione del sardo da parte dei giovanissimi.
Questi dati, nel loro insieme, sembrano indicare l’esistenza di una “cospirazione” di tutta la società sarda tendente a escludere le ragazze, molto più che non i ragazzi, dalle interazioni linguistiche in sardo. Anche se le ragazze in buona parte recuperano le distanze negli anni successivi, lo stigma – non necessariamente verbalizzato: basta l’evidenza abbondantissima del “non si fa” – verso l’uso del sardo da parte delle donne sembra persistere e trovare la sua massima realizzazione nel rapporto ragazzo/ragazza: usare il sardo significa essere “grezzi” e questo può andar bene per fare dell’umorismo, per esprimere rabbia o per atteggiarsi a “duri”, ma non nel momento delicatissimo in cui si decide di corteggiare un potenziale partner o di accettarne o meno la corte. Ovviamente, una volta che il rapporto è stato impostato in una lingua, diventa poi praticamente impossibile passare a un’altra lingua.
A queste considerazioni va poi aggiunto il fatto che, evidentemente, nel sardo si è estinto il registro del corteggiamento, il linguaggio settoriale per l’approccio dei rappresentanti dell’altro sesso che suscitano interesse sessuale.
È ovvio che questo linguaggio non si può apprendere nel corso di una normale interazione linguistica, visto che il corteggiamento costituisce una delle attività più private e delicate. I modelli di corteggiamento a cui siamo normalmente esposti sono costituiti dalla produzione di autori più o meno specializzati di canzoni, film, libri, programmi televisivi in cui si rappresentano i rapporti privati tra un uomo e una donna. Nella società sarda attuale, questi modelli sono in italiano e monopolio dell’industria culturale italiana, mentre nella società tradizionale i modelli erano forniti, per esempio, dai mutos e mutetus che praticamente tutti conoscevano e cantavano. Spariti dalla vita reale quei modelli, ai giovani sardi non rimane che adattarsi ai modelli proposti dall’industria italiana della rappresentazione dei sentimenti, e lo fanno, ovviamente, in italiano.”
Tutta la società sarda cospira nell’escludere i bambini dalle interazioni nella nostra lingua.
Chi interiorizza lo stigma verso il sardo va allora aiutato a superare il trauma infantile, non condannato.
Ma questo non può voler dire che si debba continuare a premiare l’ignoranza ai danni della conoscenza.
Sapere di pù va premiato, non punito, come è stato il caso finora.
E come è ancora il caso: dai dati della chirca sotziulinguistica risulta che ancora i bilingui in sardo e italiano hanno più probabilità di non raggiungere un titolo di studio superiore.
E poi ci sono quelli che parlano di discriminazione dei monolingui in italiano…
Comunque sia, è ora che questi ignoranti militanti si rassegnino e – perché no? – si mettano a studiare.

(Bolognesu: in sardu – Limba e áteras cosas / Lingua sarda e altro)

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