Io sono uno di quelli minacciati / dileggiati / additati…

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Io sono uno di quelli minacciati/dileggiati/additati.
Non alle elementari, per carità… addirittura avevamo una maestra che faceva lezione in Piemontese. E neppure alle scuole medie. Ma dalle superiori sì.
Ho frequentato le superiori a Torino. A Torino, mica a Roma… a Torino.
Ai tempi, non si parlava di mobbing, ma la solfa era la seguente; quando giungeva il momento della mia interrogazione, il professore, se ne usciva sempre con la solita frase «ed ora che venga il barotto!» e quando giungevo alla cattedra esordiva sempre con un ilare «candissa, monsiù!» (leggetelo come è scritto).
Ed ovviamente la classe intera esplodeva in un’epica risata che si protraeva per alcuni minuti.
Pensa ad un ragazzino di 14 anni, che ogni mattina si alza alle 5 per essere a scuola alle 8, e che poi torna a casa alle 19; per 6 giorni alla settimana. Pesante. Pesantissimo.
Gli unici momenti per stare con gli amici, quelli veri, quelli di infanzia, si riducevano a poche ore la domenica pomeriggio; perchè la domenica mattina bisognava fare i lavori di casa… mica dormire fino a mezzogiorno.
E dopo tutto ciò, ti ritrovi ad essere deriso perchè sei… del luogo?
Ma ovviamente la cosa fece presa. Poco alla volta mi fu “introdotto” l’italiano, in questa maniera abietta ma calcolata. Restai prigioniero di questa “letargia italica” per oltre 15 anni. Ma alla fine riuscii a risvegliarmi… per scoprire che non ero l’unico. Solo che tanti, troppi, sono ancora letargici.
Ma più che letargici ormai sono schiavi.
Sono degli schiavi docili ed accondiscendenti; timorosi ed accorti oltre ogni dire nel parlare, agire e… pensare.
Non sono solo schiavi “fuori”, fisicamente. Sono, soprattutto, schiavi “dentro”.
Sono talmente tanto compressi nella loro condizione di schiavitù che, nell’accorgersi di avere a che fare con un loro “simile” che non è schiavo, o che non è più schiavo… si adirano.
E come condizionamento riflesso (impostogli dai suoi padroni), invece di cercare, chiedere, aiuto per potersi liberare, cerca a sua volta di convincere il Libero od il Libérto a (ri)divenire schiavo a sua volta.
E lo fa con il mezzo più subdolo: sminuire l’importanza delle cose.
«ma va là, che ci sono cose più importanti a cui pensare…» segue risatina carica di superiorità saccente.
«su su, ma vorrai mica impuntarti su sta cosa? chi è che parla ancora in “dialetto”»
– «ma piantala li! Vuoi mica passare per un contadino ignorante, no? E allora… su su, che sei una persona intelligente!»
E via fòrt…
I mezzi sono sempre quelli: 1) ci sono cose più importanti (ti spiegassero pure quali sono, non sarebbe male); 2) Smettila di fare la “testa dura”, il retrogrado e vedi di aprirti un poco al mondo; 2a) Usano sempre, ed ostinatamente, il termine dialetto, e lo usano con tono viscido, infamante e/o canzonatorio; 3) Puntano sull’autostima.
È per questo che occorre imporsi, ed occorre imporsi a denti stretti e pugni chiusi. Non si deve guardare in faccia nessuno.
Occorre “correggere”, sempre e comunque; e mai lasciar passare.
Appena si sente la parola “dialetto”… partire subito con “Lingua Piemontese, prego!”. E come questi utilizzeranno la solita frase «ma che lingua e lingua… tra paesi vicini cambiano le parole», subito a rimbeccarli facendo presente che «proprio perchè è una Lingua, il Piemontese possiede i suoi dialetti» e così si spiega a costoro (ed a quelli che immancabilmente stanno ascoltando) che se a Carmagnola “si” si dice “é”, ed a Poirino “si” si dice “éi”, è perchè a Carmagnola si parla il Carmagnolese, ed a Poirino si parla il Poirinese, CHE SONO DUE DIALETTI DEL PIEMONTESE (scusate il tutto maiuscolo) […]

Teobaldo Appendino, su Facebook, 14.7.2013

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