Cerea, neh? Bòja fàuss!! Quante volte vi è capitato di leggere testi in piemontese farciti di intercalari di questo tipo. Magari inconsapevolmente, spesso chi si trova a scrivere nella nostra lingua, o anche solo quando tratta di Piemonte, sembra avverta l’esigenza di infiorettare il discorso con queste “frasi fatte”, quasi che in questo modo diventi più spigliato, più sincero, più “genuino”. Basta collegarsi ad uno dei vari forum su internet per accorgersi subito di quanto la prosa piemontese scritta correntemente sia sovente ripiena di questi motteggi, o come spesso essa si rifaccia a una mitologia “della bòita” o “dij soldà ch’a tramblo nen”, che dovrebbe richiamare e descrivere fantastici “tempi andati” di un Piemonte guerriero, lavoratore, tutto d’un pezzo, abitato da persone ëd cole ‘d na vòlta, abituate a rusché senza farsi tante (troppe) domande. Insomma: una specie di età dell’oro, che più che alla realtà assomiglia al libro Cuore, modellata su un tipo umano un po’ scontroso ma sincero, burbero ma onesto, forse non troppo studiato ma fedele. Tutte qualità che, è sottinteso, sono andate perdute, ma per le quali si continua a provare una profonda nostalgia, intese come le uniche che possano costituire l’essenza del Piemonte “vero”. Anzi: queste qualità vengono a volte identificate con il Piemonte stesso, quasi che ne siano consustanziali e senza le quali esso non potrebbe esistere.
In base a questa identificazione tra il Piemonte e alcune sue presunte virtù o caratteristiche va da sé che è assai diffusa un’immagine del nostro Paese che, partendo dalla battaglia dell’Assietta va al lavoro d’officina (la bòita, con tutto il suo gergo), passando per il piemontese testardo e un po’ rude, tipo certe commedie teatrali di fine Ottocento – modello “non capisco ma mi adeguo” – fino a giungere al piemontese ligio e fedele alle leggi, anche – anzi meglio – se ingiuste.
Questo mitico Piemonte non è mai esistito (e la prova provata è la realtà che viviamo: se mai ci fosse stato vivremmo tutti in una specie di paese dei balocchi), ma la sua immagine deformata e deformante rischia di essere assai pericolosa e di condurre a una percezione distorta della realtà, delle cause e dei rimedi ai problemi che si trova a dover affrontare e risolvere il nostro popolo. Ci pare infatti che certa prosa tradisca una certa visione delle cose, e quindi una certa mentalità che, a nostro giudizio, ha giocato una parte non irrilevante nel condurci alla triste situazione attuale; è quindi necessario affrontare e superare certi ostacoli di carattere ideale e certi problemi di ordine psicologico se si vuole progredire nella risoluzione del problema che affligge il Piemonte di oggi, vale a dire la necessità non più dilazionabile della presa di coscienza razionale e completamente elaborata di possedere una chiara e ben definita identità nazionale.
Che parte da un’assunzione di responsabilità verso la propria lingua, che certamente deve venire ufficializzata e posta a fianco della lingua di Stato, ma che prima di tutto deve venire rispettata e onorata dai Piemontesi stessi, anche nelle occasioni che possono sembrare meno importanti.
Troppo spesso i Piemontesi hanno l’abitudine di non darsi importanza, quasi volessero mettere le mani avanti quando parlano di loro stessi, della propria lingua, della propria cultura e del proprio Paese: a questo scopo cercano di buttarla sul ridere, quasi a volersi scusare in maniera preventiva e a giustificarsi per essere al mondo. Di questa attitudine ne è un chiaro esempio la prosa, quando cominciano a fiorire le parole ridicole (o che tali vorrebbero essere): ciampòrgna, torolo, babacio e via di questo passo. Associare la nostra lingua a questi vocaboli (tutti in disuso, riferiti a mondi scomparsi, o addirittura volgari) significa disprezzarla e associarla a qualcosa di inutile, pittoresco e desueto: non a caso è ciò che sempre fanno coloro che vogliono eliminare il piemontese – si pensi a certi “giornalisti” in bicicletta che hanno fatto un mestiere della loro attitudine a passare (ma a volerci far passare tutti) per badòla.
Ciò va combattuto nel modo più fermo, e basti pensare ai grandi della Storia che hanno cambiato il mondo parlando e pensando in piemontese (San Pio V, Gioann Vigo, Paul Revère, Galileo Ferraris, Ascanio Sobrero, Don Bosco, tanto per citarne solo alcuni). Altro che complesso di inferiorità! Anche per questo bisogna voler bene alla lingua, che non vuol dire andare a ricercare parole strampalate per il puro gusto di farlo, magari poi vantandosi che iosopiùparoledite-tié!, ma, prima di tutto, considerarla per quel che merita e cercare di usarla come si deve e in tutti gli àmbiti, parlandola ai bambini e insistendo perché venga insegnata a scuola.
Cominciando però col darle (almeno!) la medesima dignità dell’italiano, a partire dalla scrittura: via quindi quegli insopportabili bòja fàuss e neh!, che ci rendono soltanto ridicoli, tradiscono un complesso di inferiorità e denunciano un’impotenza intellettuale che – in ultima analisi – è la causa di tutti i nostri mali.
Anche per quel che riguarda lo stereotipo del piemontese tutto d’un pezzo-rude-onesto-lavoratore-taciturno-serio-incorruttibile, che tanto sovente affiora dall’immaginazione dei Piemontesi e di chi scrive in piemontese, vale lo stesso discorso. In altre parole, basta con questa retorica d’accatto sul “tipo piemontese” contrapposto all’uomo normale, che così sovente si sente evocare da coloro che dovrebbero tenerci di più all’identità del proprio Paese, e che proprio per questo dovrebbero essere i più realisti (non i più gretti), quindi quelli di più ampie vedute. Cioè: è inutile, dannoso, fuorviante, oltre a costituire un comodo alibi per l’inazione, il ritirarsi nella contemplazione di un tipo umano mai esistito, l’additarlo come un modello (che in quanto tale è irraggiungibile, quindi tanto vale non far nulla per imitarlo, tanto è impossibile…) e poi limitarsi a lagnarsi che Turin a l’é pì nen col ëd na vòlta, o che tant a cambia mai nèn… Sicuro che così non cambierà mai niente, almeno in meglio: ma ciò è la diretta conseguenza di questo atteggiamento passivo, rinunciatario e negativo, questa specie di filosofia e di prassi di vita del bicchiere mezzo vuoto che pare aver contagiato buona parte dei Piemontesi dal dopoguerra in qua.
Atteggiamento mentale che, tra l’altro, ma non solo, ha indotto molti dei nostri padri e dei nostri nonni ad abbandonare il piemontese per l’italiano (così ci capiamo tuuutti…), con ciò che ne consegue (disagio sociale, rovina del territorio, decadenza economica, ecc.). E non basta un bòja fàuss “spatarato” qua e là per risolvere i problemi.
Da questo ci pare inoltre che derivi il pressapochismo che così sovente si riscontra nel Piemonte di oggi, unito ad un’anglofilia davvero provinciale, che ha come conseguenza quella di svilire ancor più la nostra identità e di sminuire ancor più il nostro orgoglio personale e di popolo (e senza questo non si va da nessuna parte). È vero che le parole sono pietre: come si fa a ideare lo slogan Torino, always on the move? Bisogna studiarci la notte, e volersi male. E non essere neanche troppo furbi.
Tutto ciò genera inoltre un’indolenza e una mancanza di concretezza nell’affrontare i problemi che non fa che peggiorare la situazione, col risultato che si ingenera spesso un movimento al ribasso che fa in modo che sia sempre più difficile uscire dalla situazione in cui ci siamo venuti a trovare. È vero che da noi mancano gli uomini “liberi e forti”, senza i quali non si può sperare che le cose possano migliorare: il cambiamento dipende da ognuno di noi, dalla sua consapevolezza, dalla sua coerenza e anche dal suo coraggio. E, in modo fondamentale e niente affatto astratto, dal suo amore al Paese.
L’abito mentale che scaturisce dal mix di complesso di inferiorità, atteggiamento rinunciatario, indolenza, esterofilia, pressapochismo, possiamo chiamarlo “gianduismo”, in quanto lo si può identificare con la variante deteriore di un personaggio (che non a caso procede con le braje an man) che si vorrebbe rappresentativo di un certo tipo di piemontese di cui si parlava poc’anzi, al quale si vorrebbero ricondurre tutti i nostri connazionali. Certo che sarebbe comodo – in primis per lo Stato italiano – se tutti i Piemontesi fossero come lui: pasticcioni, bonaccioni, un po’ indietro di cottura, facili da tener buoni con due bicchieri di barbera, ignoranti (“ricchi della sola arguzia popolare”…), che non si ribellano mai e che non sanno manco più chi sono. Ed infatti è proprio così che ci dipingono i giornali e le televisioni italiane, che devono far in modo di perpetuare una caricatura dalla quale i piemontesi non devono poter uscire.
Il gianduismo è pericoloso. È pericoloso perché è subdolo: lo si assimila a piccole dosi, senza accorgersene, e così diventa parte di noi e noi veniamo a recitare un ruolo scritto da altri e funzionale a interessi ben precisi. Magari proprio nel momento in cui si pensa di essersi liberati di certi pregiudizi e di essersi sbarazzati di certi luoghi comuni (come la sacralità dell’Italia o l’intangibilità della lingua italiana) eccolo lì che è pronto a rialzare la testa e a farci sgambetto. Magari con un Bòja fàuss!! che, scappando, non fa altro che denotare il nostro complesso di inferiorità. Con il che si ritorna al punto di partenza, dal momento che se è così, non si è individuato il problema da risolvere e non si può pensare di indicare soluzioni e di percorrere vie d’uscita: il problema è la nostra identità nazionale; se si resta ancorati al gianduismo mancano le premesse minime per affrontarlo e si ricade nel folklore, nel nostalgicismo e nell’inconcludenza.
Il gianduismo è il nostro peggior nemico, perché rischia di diventare una nostra seconda natura, che ci vincola e ci condiziona senza che nemmeno ce ne accorgiamo, anzi, felici di essere oppressi e di vederci negati i nostri diritti linguistici, nell’ambito della sindrome di Stoccolma che affligge così tanti piemontesi.
Al gianduismo bisogna schiacciare la testa. Come? Dipende da noi. Con una buona dose di positività, con l’entusiasmo, con la convinzione di essere nel giusto, con la consapevolezza che possediamo un tesoro (la nostra lingua) che nessuno ci può rubare, col fare il bene operando per il bene del nostro popolo. A questo punto si rivelerà per quello che è: un’ombra, un fantasma che ci siamo costruiti da soli, un verme, e si sarà definitivamente liberata la strada verso il futuro che dovremo conquistarci e che ci condurrà alla nostra libertà.
Carlo Comoli
Gioventura Piemontèisa | Otóber dël 2009