Scrittore, drammaturgo, archetipo degli “spiemontizzati”, sedicente “scopritore dell’Italia”, massone, poi anti-massone.
Nato ad Ast/Asti nel 1749 da famiglia ricca e nobile, a sette anni, manifestando i primi segni di squilibrio, tenta il suicidio con un infuso di erbe per imitare Socrate.
Dopo otto anni di Accademia militare è nominato alfiere del reggimento di Asti. La concordanza con il suo cognome gli causa ossessivi pensieri etimologici. Sentendosi soffocare si dedica alla moda del momento, vale a dire i viaggi.
A Parigi – che definisce cloaca massima – rimarca con equilibrio che lì le donne sono bruttissime, per cui si consola con le donne sposate di tutto il resto d’Europa. A Londra il marito geloso di una collezionista di amanti lo ferisce in un duello. Condannato in contumacia, espatria e, credendosi Don Chisciotte, attraversa tutta la Spagna a cavallo. Giunto a Lisbona, l’abate Caluso lo fa sentire improvvisamente – ahinoi! – poeta; dopo aver percorso tante miglia in ogni paese si reca quindi, per poetare… proprio a Torino.
A ventitré anni fa il mestiere del ricco sfaccendato volterriano e irriverente. In gara con i suoi soci sfida la morte (sua e altrui) scendendo al galoppo dall’Eremo dei Camaldolesi a Po; per farsi notare percorre avanti e indietro al galoppo anche la Contrà ‘d Pò. Perde quindi la testa per una tardona di cattiva fama e scrive la sua prima tragedia.
Delibera di diventare poeta tragico e di scrivere dodici tragedie. Per studiare e prepararsi si fa legare a una sedia e si fa rasare i capelli a zero, per essere costretto a non osare uscire in strada.
Torna a mancargli l’aria: nel 1776 va a spiemontizzarsi in Arno e si trova un’altra amante sposata, la contessa D’Albany. Scoperta la tresca, il vecchio marito – fra l’altro, pretendente al trono d’Inghilterra – batte la sposa fedifraga; lei si rifugia in un convento, poi fugge a Roma, l’Alfieri la segue travestito da cocchiere.
Stufo di dovere chiedere il permesso al re ogni volta che lascia il Piemonte, vende i mobili, i quadri, lascia tutto il resto alla sorella in cambio di un vitalizio e riparte. Scalzato da Venezia per un’altra faccenda di signore sposate, ripassa per Parigi – che questa volta è un’immensa fogna. A Londra, non trovando una Rolls Royce rosa, acquista quattordici cavalli, e con questi riguadagna il Piemonte. Intanto la D’Albany (detta Pipsia) si separa dal marito e se ne va in Alsazia, dove Pipsio (lei lo chiama così) la raggiunge; in concomitanza un esaurimento nervoso raggiunge lui.
Nuovi viaggi e nuovo trasferimento – chissà perché – nuovamente a Parigi. Nella capitale francese la D’Albany, rimasta finalmente vedova, apre un salotto dove riceve gli ospiti assisa su un trono e si fa chiamare “maestà”. Tempi e luoghi peggiori per una regina non si potevano trovare: nel 1789 la coppia perde tutto e scappa a Bruxelles, poi di nuovo a Firenze dove – riferisce Stendhal – la D’Albany lo tradirebbe con un giovane pittore francese. A Firenze Alfieri muore nel 1803.
Celebre la sua idiosincrasia per tutto quanto è piemontese o francese. «Barbari cognomi!»: due parole per disprezzare perfino il nome della madre, Monica Maillard De Tournon.
Il suo nome e la sua figura campeggiano oggi ovunque sogliono incontrarsi persone seriamente intenzionate a smarcarsi dalle proprie origini, a farsi un lifting identitario o a proporre immagini distorte dell’identità piemontese.
Vittorio Alfieri nel 1783 scrisse due sonetti in lingua piemontese (la sua lingua madre): «Sonet d’un Astesan an difèisa dël stil ‘d soe Tragedie» (Roma, 23.4.1783: Son dur, lo seu, son dur…) e «S’l’é mi ch’son ‘d fer o j’Italian ‘d potìa…» (Venezia, 7.6.1783).