Lo storico Ludovico Antonio Muratori (1672 – 1750) nella sua proposta di organizzazione degli intellettuali italiani lanciata fra il 1703 e il 1704, non considerò il Piemonte. Si possono avanzare tutti i pretesti possibili, ma il sacerdote modenese intendeva rinnovare la cultura italiana con la Lombardia, il Veneto, la Toscana, Roma e il Sud. [1]
Lo scrittore Stendhal (1783 – 1842) in Rome, Naples et Florence en 1817 scrisse: «I veri brutti e cattivi (méchants-bilieux) dell’Italia sono i Piemontesi; è una delle impronte più profonde che abbia mai incontrato; il Piemontese non è più italiano che francese: è un popolo a parte». [2]
Nel periodo in cui vennero avviate le cospirazioni unificatrici la storia ci consegna l’Italia profondamente divisa sotto ogni aspetto, politico, economico, etnico, culturale, divisione che palesava l’esistenza di molti popoli e non di un popolo italiano. [3]
La definizione poetica della «nazione italiana» propugnata da Alessandro Manzoni (1785 – 1873) la voleva «una d’arme, di lingua, d’altare / di memorie, di sangue, di cor».
Accenniamo ora all’unità di memorie appoggiandoci alla lucida analisi di Aurelio Lepre:
«Soltanto gli intellettuali coltivavano memorie italiane, ma, fino agli ultimi decenni del XVIII secolo, italiane non aveva significato nazionali. I celebratori delle glorie dell’Italia non erano stati, prima di allora, né precursori né profeti. Nello stesso momento in cui le ricordavano, ma solo nel campo della letteratura, della pittura e della scultura, molti di loro vivevano tranquillamente alla corte di principi e sovrani stranieri. La loro celebrazione dell’Italia non era a fondamento del nazionalismo, ma del cosmopolitismo: la casta degli intellettuali si sentiva cosmopolitica, fondava il suo prestigio internazionale su quello della cultura italiana e solo per tale ragione celebrava l’Italia». Era questo il primato italiano utile agli intellettuali, un primato che esisteva anche senza che esistesse la nazione italiana e che assicurava loro una decorosa posizione nelle corti, non solo in Europa ma anche in Italia». [4]
Lo “scopritore” dell’Italia fu poi un piemontese che odiava i francesi e si vergognava di essere piemontese: il conte Vittorio Amedeo Alfieri (1749 – 1803). Secondo la testimonianza del marchese Massimo Taparelli D’Azeglio [5] (1798 – 1866), il cui padre esule a Firenze chiamò il sacerdote per impartire i sacramenti all’Alfieri morente [6], questi era veramente convinto di avere «scoperta l’Italia come Colombo l’America». Ma, si sa, Alfieri non era sano di mente, e “quella” idea d’Italia arrivò invece con i giacobini dell’ottantanove e la loro “patria sacralizzata” come nuova religione da sostituire alla “vecchia”.
Nel XIX Secolo fra gli “italianissimi” anche di un certo livello c’era chi ignorava dove fosse l’Italia. [7]
Sulla Gazzetta Piemontese, il giornale ufficiale, le notizie di Ciamberì e di Torino erano catalogate come «Interno», mentre quelle provenienti da Napoli come «Italia».
In Piemonte venivano considerati italiani coloro che provenivano da oltre Ticino.
A Torino le due principali strade che uscivano dalla città a ovest e a est si chiamavano rispettivamente strada di Francia e d’Italia (il fascismo provvederà a cambiare le denominazioni in corso G. D’Annunzio e corso Giulio Cesare, e quest’ultima arriverà fino ai nostri giorni…).
Il politico lombardo Giulio Adamoli (1840 – 1926) riferisce che nel 1859 sentì domandare ai volontari inglobati nell’esercito piemontese: «Vieni dall’Italia, tu? e perché ti sei arruolato in Piemonte?». [8]
In Piemonte (dove le classi agiate parlavano francese, dove i riferimenti culturali erano a Parigi e dove la popolazione parlava piemontese), la lingua italiana era comune soltanto alle classi colte, vale a dire a un’esigua minoranza. [9]
Nel 1844 Cesare Balbo (1789 – 1853), piemontese, autore delle Speranze d’Italia, doveva ammettere che «L’Italia […] raccoglie da settentrione a mezzodì provincie e popoli quasi così diversi tra sé, come sono i popoli più settentrionali e più meridionali d’Europa» [10]. Un altro piemontese, il generale Giacomo Durando (1807 – 1894) , per parlare di Italia nel 1846 doveva contorcersi fra astruse concezioni di subnazionalità e di diversità subnazionali (la ligure era secondo lui la più caratteristica) a loro volta ridotte a a tre elementi principali costituenti la grande nazionalità italiana…!
E a proposito di liguri: dopo il Congresso di Vienna Genova protestò vivacemente e si oppose fino all’ultimo all’annessione dell’antica repubblica a un “governo straniero”: così era (giustamente) definito lo Stato piemontese [11].
Le constatazioni degli intellettuali di quel periodo insistono sulle diversità etniche e culturali dei vari popoli, esprimendo forti perplessità su una loro possibile fusione. Ne ragionava lo stesso Cavour (1810 – 1861) quando scriveva (in francese) che «La razza cis-appenninica non ha nessuna analogia con la razza etrusca. Non si saprebbe come fonderle insieme. Ciò che farebbero i trattati in questo senso sarebbe presto distrutto dalla forza delle cose». [12]
Anche Ippolito Nievo (1831 – 1861) era convinto che in Italia vivessero razze o stirpi diverse. [13] Però secondo lui erano tutte unite dalla comune ascendenza romana, e quella più pura di sangue romano, «documenti alla mano», dopo la conquista dell’alta Italia era proprio… Venezia!
Interessante il collante per unire gli italiani mobilitando le masse proposto dal patriota milanese Federico Confalonieri (1785 – 1846): l’odio contro gli stranieri. [14] Ma al Sud erano considerati stranieri quelli nati a nord di Roma. [15]
Dal Nord quasi nessuno si era avventurato in quella che allora era detta Italia Inferiore [16] e per questa ragione non si aveva alcuna percezione reale di quelle contrade. Ancora a metà del secolo i giornali di Torino descrivono la Sicilia come un paese dove abbondano oro, argento, rame, agate, smeraldi ed altre ricchezze delle quali «trascurasi lo scavo»! [17] La medesima descrizione delle Indie nel Medio Evo.
Ci si basava pertanto sui giudizi degli scrittori meridionali e su quelli degli “esuli”, che insistevano nel magnificare un paese favoloso che non attendeva che essere liberato dai propri inetti governanti per decollare verso l’olimpo delle grandi potenze europee.
Benso di Cavour stesso viaggiò per tutta Europa, ma non si allontanò mai dai confini meridionali del Piemonte-Savoia, e del Sud mantenne un’opinione esclusivamente libresca[18]. Il suo concetto dei diversi popoli era superficiale e astrattamente uniforme: li riteneva tutti in egual modo ansiosi di cogliere i cambiamenti per intraprendere iniziative economiche. [19]
«Soto i taliani el governo no comanda più gnente, comanda i siori» [20]: così si diceva in Veneto dopo l’annessione. Motto molto chiarificatore sulla partecipazione popolare dei Veneti al risorgimento.
Nel 1853, durante un viaggio nelle Due Sicilie, il lombardo Giovanni Visconti Venosta (1831 – 1906), interrogato da un ufficiale si accorse che questi «si ostinava a voler mettere la Lombardia nella Svizzera». [21]
Al principio del 1860 l’ambasciatore piemontese a Napoli, il marchese Salvatore Pes di Villamarina (1808 – 1877), inviò un dispaccio (in francese) a Cavour che denunciava la presenza di una popolazione bugiarda, brutale e timorosa, di una gioventù superficiale e opportunista; l’eccezione di qualche bella intelligenza era vanificata da una natura pavida e senza energia. [22] Ma era piemontese, e si è scritto che i Piemontesi fossero prevenuti (chissà poi per quale ragione: non sarebbero stati loro così ansiosi di unire le Due Sicilie al nuovo regno, perfino contro la volontà di quelle popolazioni?).
In novembre di quello stesso 1860 arrivò a Cavour l’allarmata testimonianza di un emiliano, il luogotenente a Napoli ex ministro dell’interno Luigi Carlo Farini (1812 – 1866): «Vedo che il giudizio che si porta di questa parte d’Italia dalla rimanente non è conforme al vero… Vediamo che questo periodo della annessione napoletana non segni il cominciamento della disgregazione morale dell’Italia!». [23]
L’anno dopo è un marchigiano, Diomede Pantaleoni (1810 – 1885), già agente di Cavour, mandato dal ministro dell’interno Minghetti (bolognese, 1818 – 1886) a riferire sul Sud: parlando della Calabria scrive che bisogna «viaggiare come caravane nel deserto per difendersi dagli Arabi e dai Beduini». [24]
Per l’esule napoletano (di Taranto) Giuseppe Massari (1821 – 1884) Napoli era «paese corrotto e vile»: «Oh! Quella Napoli come è funesta all’Italia!». [25] Nel 1860, dalla sua terra d’origine sospirava: «Io ho sempre amato ed apprezzato il Piemonte, ma dopo questi tre giorni a Napoli lo adoro». [26]
Gli esuli meridionali a Torino, ed anche gli stessi meridionali che temevano le rivolte contadine contro i proprietari – protagoniste dei raccapriccianti fatti di Bronte – [27] invocavano la forza militare per domare la ribellione del Mezzogiorno; non si può poi pretendere che, dopo una simile pubblicità, l’opinione pubblica piemontese potesse disporre di informazioni più corrette per farsi un’idea diversa delle Due Sicilie.
Obietta Angela Pellicciari, citando un articolo di Piero Boitani: [28] «L’Italia non era, come diceva Metternich, un’espressione geografica, ma “un’espressione culturale, e soprattutto letteraria. Qualunque europeo di buona cultura sapeva benissimo che la pittura, la scultura, la musica provenivano dall’Italia”. Per secoli la letteratura italiana “ha rappresentato l’avanguardia culturale del mondo occidentale”». Non ce la sentiamo di mettere in discussione il valore della cultura italiana dei secoli passati; tuttavia non possiamo che constatare che essa ha prodotto, fino a quando c’erano gli Stati pre-unitari, geni universali ammirati ovunque e in ogni epoca, e che, dopo l’unificazione e con il ridimensionamento della Chiesa cattolica, di questi geni non abbiamo più sentito parlare.
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Note:
1. Giuseppe Ricuperati, Intellettuali e istituzioni della cultura nello Stato Sabaudo della seconda metà del ‘700, in Vittorio Alfieri e la cultura piemontese fra illuminismo e rivoluzione, Atti del convegno internazionale di San Salvatore Monferrato 1983, 1985, p. 5.
2. Cfr. Michael Nerlich, Stendhal, Alfieri et le Piémont: de Rondino à Ferrante Palla, in Vittorio Alfieri e la cultura piemontese fra illuminismo e rivoluzione, Atti del convegno internazionale di San Salvatore Monferrato 1983, 1985, p. 341. Traduzione nostra.
3. Daniele Vimercati, Il mito d’Italia in La rivoluzione, Milano 1993, p. 23.
4. Aurelio Lepre, Italia, Addio?, Milano 1994, p. 17.
5. Riportata in A. Lepre, cit., p. 17.
6. Carlo Moriondo, Questi Piemontesi, Ciriè 1990, p. 80.
7. A. Lepre, cit.
8. Cfr. A. Lepre, cit., pp. 6 e 7.
9. D. Vimercati, cit., p. 23.
10. Cfr. A. Lepre, cit., p. 18.
11. Romano Bracalini, L’Italia prima dell’unità, Milano 2001.
12. Cfr. A. Lepre, cit., p. 20.
13. A. Lepre, cit., p. 20.
14. A. Lepre, cit., p. 21.
15. R. Bracalini, cit.
16. Mario Costa Cardol, Venga a Napoli signor Conte, Milano 1986.
17. R. Bracalini, cit.
18. M. Costa Cardol, cit., pp. 20-21.
19. M. Costa Cardol, cit., p. 22.
20. Cfr. A. Lepre, cit.
21. Cfr. A. Lepre, cit., p. 6.
22. M. Costa Cardol, cit.
23. M. Costa Cardol, cit.
24. Cfr. A. Lepre, cit.
25. Cfr. A. Lepre, cit.
26. Cfr. A. Lepre, cit.
27. A. Lepre, cit.
28. Pubblicato sul quotidiano Il Sole-24 ore e ricordato in Angela Pellicciari, Prima del Risorgimento? Niente.