Nazione a cavallo delle Alpi occidentali, dove si parlano lingue galloromanze, il Piemonte-Savoia è schiacciato fra la francofonia e la lingua toscana che i mecenati, i banchieri e gli artisti del Rinascimento hanno trasformato in una lingua di cultura.
La sua identità è peculiare, ma nell’Ottocento gli stranieri spesso percepiscono soltanto la sua collocazione alla frontiera francofona e ai confini della lingua del sì. Visto da destra, visto da sinistra: Alexandre Dumas lo definisce cette France presqu’italienne e Alfieri un’Italia infrancesata (sic!). Lo storico Gregorovius, osservatore più attento, nota come tutti i monumenti di Torino appartengano alla nazionalità piemontese.
A Corte la lingua era il piemontese, così come in piemontese ci si esprimeva nelle grandi famiglie subalpine. Il mondo politico e diplomatico del Regno Sardo-Piemontese parlava francese. In Parlamento gli interventi erano in francese, così come in questa lingua si redigevano i documenti ufficiali. Il “celebre” discorso di Vittorio Emanuele II alla Camera del 10 gennaio 1859, quello sul lacerante grido di dolore – che ben si accompagna allo scorrere del sangue che distingue la storia del risorgimento –, fu concepito in francese, anzi, fu suggerito direttamente da Napoleone III.
L’esercito parlava in piemontese e gli ordini venivano impartiti in francese. Un ufficiale austriaco riferisce la sua meraviglia nel sentire durante una battaglia i Piemontesi caricare al grido di Vive notre colonel Sonanz!
Nelle università la “lingua franca” latina sarà abolita soltanto dopo il 1850. Nella scuola, gestita dai Padri Gesuiti, era obbligatorio parlare in piemontese. [1]
Note:
1. Romano Bracalini, L’Italia prima dell’unità, Milano 2001.
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