Se il piemontese non è un dialetto ma una lingua (come effettivamente è), Remigio Bertolino è il suo aedo. Insegnante elementare, nato a Montaldo Mondovì nel 1948, vive a Vicoforte e ha iniziato a scrivere in piemontese negli anni Settanta con il racconto breve Mia mare. Appartiene a quella schiera di poeti che, pur di generazioni differenti, sono stati accomunati da Giovanni Tesio sotto la definizione di “gruppo di Mondovì”, vicini sia per gli aspetti linguistici (la parlata di Mondovì “sente” di Langa e talora di Liguria, senza essere né langarola né ligure) sia per le scelte strutturali e stilistiche (in genere si prediligono testi brevi e rarefatti) sia per gli argomenti trattati.
Ora, dopo anni di riconoscimenti, la sua notorietà travalica i confini regionali e trova la sua consacrazione di uno dei più illustri critici, Giorgio Barberi Squarotti, che ha curato la raccolta “Versi sciolti”. Come scrive nella prefazione il volume: “è una fondamentale testimonianza di poesia lungo trentatré anni di rigorosa ed essenziale lezione di tragica verità della vita tradotta in parola”.
La poesia di Bertolino è poesia trasfigurale, ossia poesia che dà figura a un mondo parallelo – un mondo “altro” dalla sua pura e semplice caratterizzazione fenomenica – fatto di incantamenti e di stupori, di epifanie e di lucori: “direi addirittura di un’unica e continuata alterità – scrive Tesio -, di una consistenza realistica e insieme fantastica, di una accorata e ancorata fuggitività, di una sorprendente efficacia di collocazione e di spiazzamento, di realismo e di illusorietà; di cose e corpi saldi, che diventano ombre e fantasmi impalpabili (proprio per questo, tra tutte, è la parola “sògn” a parlare più di ogni altra). Tanto spazio hanno i bambini nella poesia di Bertolino, soprattutto gli orfani, figure reali (fino agli anni settanta a Mondovì c’era un orfanotrofio) ma diventate simboliche, come i vecchi, i contadini poveri, le donne stanche e maltrattate, tutte “voci” di una società contadina impregnata di fatica e povertà, realmente esistita fino ad alcuni decenni fa. Al poeta sta a cuore trasformare la lontananza nella possibilità di osservare la realtà trascorsa e presente da una diversa angolazione per coglierne quel nucleo davvero significativo che permane invariato nello scorrere delle stagioni e attende chi lo sappia percepire: “mia famija armonta / ënt la sava dël castagne; / sent le vos / ënt ël feuje ch’i balo al vent… – la mia famiglia risale / nella linfa dei castagni; / sento le voci / nelle fronde che danzano al vento…”.
Il senso intimo della vita, che resta imperscrutabile se osservato troppo da vicino, si è conservato intatto dentro paesaggi di gelo e silenzio, protetto dalla coltre di neve che come “una sarta / sapeva le misure / d’alberi, guglie, tetti / e quelle dei miei sogni”. Si è tutti abbandonati al mondo, orfani presi in affido dalla vita che ben poco riesce a offrire ma quel poco è incommensurabile se riesce a fondersi nella percezione di un’eternità in cui ritrovarsi con chi non c’è più e di una luce che, per quanto flebile, traccia la sua scia come una lucciola nelle notti di maggio. Non si può sfuggire alla costante presenza della morte, all’oscurità della sofferenza e della perdita in un mondo dove le “apocalissi” sono quotidiane esperienze di vita. Bisogna guardare in altre direzioni, dëdlà dël cercc, ed infatti c’è molta luce nelle poesie (come nei titoli di intere raccolte: Sbaluch – Splendore, A lum ëd fiòca – A lume di neve), la luminosità trasparente di un cielo terso, mèta ultima di uno sguardo che si è purificato attraverso “Neve, silenzi, lontananze spezzate” e ora può scorgere ciò che proviene del passato, “la luce dei tuoi occhi / è un lampo tra veli di tempo”.
(Lo Spiffero, 4.4.2013)