Il tortuoso cammino
verso il riconoscimento della lingua piemontese
Fin dai primi decenni del XX Secolo la maestra che, secondo i programmi della scuola di Stato, doveva insegnare agli allievi la lingua italiana era costretta, giocoforza, ad appoggiarsi alla lingua piemontese, che tutti i bambini conoscevano come unica lingua. Questa situazione non era rara ancora negli anni Sessanta.
Durante il fascismo il ministero della cultura popolare (Minculpop) proibì il piemontese scritto, contro ogni logica e in spregio alla realtà piemontofona dei giovani allievi. L’obiettivo del potere statale (ora come oggi) era la definitiva cancellazione della nostra lingua. Messo fuori legge, il piemontese era perseguitato: per incistare la vergogna di parlare piemontese ai bambini, la loro madrelingua era presentata come “rozzo dialetto” fuori dal tempo. Chi veniva sorpreso a parlare in piemontese veniva castigato: bacchettate sulle mani, cartelli al collo, salto della merenda. Implicitamente si riconosceva la diversità linguistica dei Piemontesi, ma questa diversità era (ed è) presentata come un disvalore.
Dopo la guerra la strategia di assimilazione dei giovani Piemontesi divenne più subdola: poiché mettere fuorilegge la lingua non portava ad alcun risultato (anche durante la dittatura italiana tutti i Piemontesi hanno continuato a parlare in piemontese e a trasmettere la propria lingua alle giovani generazioni) si è cercato – in gran parte riuscendovi – di fare in modo che fossero stesse le famiglie piemontesi ad abbandonare “volontariamente” la propria lingua (e, conseguentemente, la propria cultura e la propria identità) ponendo l’accento sull’aspetto sociale e su quello utilitaristico. Scuola e mezzi di comunicazione si prodigarono per indurre la gente ad associare la lingua dei propri padri con una povertà dalla quale ci si stava allontanando; l’essenzialità e il buonsenso dei vecchi venivano presentati come indici di arretratezza, ignoranza, rozzezza, povertà morale della quale. Per avanzare nella scala sociale (e, soprattutto, per non penalizzare i propri figli), doveva diventare necessario prendere definitivamente le distanze da tutto quanto rappresentava quel mondo, in primis la lingua, della quale ci si doveva “vergognare”.
In quegli anni quanti genitori, convocati dagli insegnanti, si sono sentiti rimproverare di parlare il “dialetto” in casa? Quanti sono stati accusati di penalizzare, con la loro “ignoranza”, il futuro dei propri figli? L’assioma imposto era estremamente semplice: parlare piemontese avrebbe impedito una conoscenza profonda dell’italiano (è stato poi dimostrato come avvenga esattamente il contrario) e avrebbe di conseguenza impedito qualunque riuscita.
Quante famiglie si sono imposte, per amore dei propri figli, di parlare solo italiano (male) in casa? Poche hanno saputo rispondere per le rime a tali arroganti accuse; la maggior parte ha assunto, anche solo inconsciamente, la decisione di “nascondere” la propria lingua a figli e nipoti, schermandoli da una “contaminazione” che avrebbe potuto arrecare loro dei danni. Anche quando il piemontese restava la lingua di comunicazione della casa, con i figli si interloquiva in italiano.
Paradossalmente dopo il fascismo – che aveva proibito di scrivere in piemontese – in nome di una “rinascita”, soprattutto culturale, si imponeva con altrettanta forza addirittura l’abbandono della lingua parlata.
Per cancellare definitivamente l’identità piemontese si pianificarono le “migrazioni interne” (un fenomeno applicato in diverse regioni europee). Se i primi arrivati finirono con l’integrarsi alla cultura locale imparando anche la lingua – come sempre era avvenuto nella storia – successivamente, quando l’immigrazione fu resa massiccia, i nuovi venuti, ghettizzati in quartieri dove potevano sentirsi “maggioranza”, si resero impermeabili ai costumi locali. In presenza degli immigrati l’esprimersi in una lingua che risultava incomprensibile venne presentato addirittura come disdicevole, e l’insistere con il piemontese (strada maestra per una perfetta integrazione – che, in realtà, non si voleva avvenisse) fu subdolamente associato al “razzismo” (!). Una montatura mediatica (alcuni giornalisti prepararono un cartello con su scritto “non si affitta a meridionali” e ne pubblicarono la fotografia) completò l’opera, diffondendo una “leggenda nera” ancora ricordata oggi.
Nel 1964, alla morte di Pinin Pacòt, colui che più contribuì a difendere la lingua e la cultura piemontese dal tentativo di “folclorizzazione”, il necrologio che ne curò Giorgio Bàrberi Squarotti (in un momento storico che vedeva il piemontese normalmente parlato in tutto il Piemonte) era tutto un programma e un auspicio. L’illustre cattedratico constatava come questa dipartita giungesse «proprio quando la dissoluzione del dialetto (sic!) come parlato è arrivata a un punto estremo che par preludere alla riduzione di esso a pochi relitti galleggianti qua e là, sulla compattezza (sic!) dell’italiano». La metafora dei “relitti galleggianti” in ambienti accademici giunse fino ai primi anni Duemila, quasi come fosse stata la “velina” suggeritrice delle strategie mediatiche. Vertone, De Mauro, Salvadori, Vàttimo, Beccaria e diversi altri esponenti di una certa intelligentsija autoreferenziale periodicamente si incaricarono di suonare la campana a morto per il piemontese dalle colonne dei giornali, pronti a rimbeccare “scientificamente” qualsiasi iniziativa venisse intrapresa per rinfrescargli la vitalità.
Proprio in quel 1964 fu Tavo Burat a proporre l’insegnamento della lingua piemontese a scuola, conscio che la catena che si voleva spezzare con le nuove generazioni avrebbe dovuto rinsaldarsi proprio a partire da queste.
Nel 1970 l’istituzione delle Regioni (con ventiquattro anni di ritardo…) lascia sperare in prospettive di decentramento culturale. Nel maggio di quell’anno l’A.I.D.L.C.M.(Association Internationale pour la Défense des Langues et des Cultures Menacées), organismo del quale lo stesso Tavo Burat è referente per la repubblica italiana, rilancia un appello per l’introduzione dell’insegnamento della lingua e della cultura piemontese nelle scuole del Piemonte. L’appello, che contempla la richiesta del riconoscimento dello status ufficiale di lingua al piemontese e l’applicazione di una normativa per la sua tutela e il suo sviluppo, viene recepito in Piemonte con gran serietà, e 27 Associazioni lo sottoscrivono. Fra queste vi è La lenga piemontèisa ant le scòle, presieduta da Camillo Brero, il quale ha recentemente scritto una moderna grammatica della lingua piemontese (1967) ed ha cominciato la propria attività nelle scuole, approntando i primi mezzi didattici e dedicandosi anche alla formazione degli insegnanti. Ancora prima è Sergio Hertel ad approntare due abbecedari per l’insegnamento della lingua ai più piccoli.
Da questo appello prende forma la prima proposta di legge regionale in materia, la N. 41, presentata il 14.9.1972 da Corrado Calsolaro con i consiglieri Fonio, Nesi, Simonelli e Viglione – che verrà identificata come proposta Calsolaro. Essa prevede: «La Regione istituisce corsi di preparazione e di perfezionamento per l’insegnamento della lingua e della cultura piemontese»; «I corsi sono tenuti da docenti riconosciuti idonei da una Commissione […]»; «L’iscrizione ai corsi è gratuita ed è aperta a tutti coloro che siano in possesso dei titoli richiesti per l’abilitazione all’insegnamento». Mai una legge regionale piemontese sulle lingue minoritarie risulterà così avanzata come questa ipotesi del 1972.
La proposta viene “insabbiata” fino alla scadenza della legislatura: non andrà in discussione malgrado numerosi appelli, mozioni, lettere aperte provenienti da studiosi ed esperti di tutto il mondo e dall’universo piemontese.
La medesima proposta di legge viene ripresentata il 22.12.1975, (la N. 54 firmata da Calsolaro, Bellomo, Robaldo e Benzi); questa volta il Consiglio Regionale la approva in pochi mesi. Interviene quindi il Commissario prefettizio del governo centrale, che la respinge, suscitando un’ondata di proteste in tutte le organizzazioni piemontesi.
La proposta viene ripresentata tale e quale una terza volta, e il Consiglio Regionale torna ad approvarla il 21.12.1978. Ancora una volta il commissario governativo si oppone alla Legge piemontese.
Questo “braccio di ferro” avrebbe meritato una rottura, almeno ideale e culturale, tra l’Italia e il Piemonte, facendo crescere fra i Piemontesi la coscienza di non essere tollerati in Italia nel caso volessero mantenere la propria lingua e la propria cultura. Tanto più che da tutta Europa furono parecchi gli attestati di solidarietà che giunsero al Popolo Piemontese.
La Regione, tuttavia, non ne ebbe il coraggio e modificò la proposta di legge secondo le direttive giunte da Roma. Il 24.5.1979 (nove anni dopo la presentazione della proposta Calsolaro!) viene approvata la Legge Regionale 30/79, una legge inutile e “assistenziale” che nulla riconosce all’identità piemontese e, oltretutto, stanzia piccoli contributi “a pioggia” dividendo il fronte delle associazioni, che così si legano mani e piedi alla politica regionale. Ovviamente in questo caso il commissario prefettizio non ha nulla da eccepire.
Gli scarsissimi risultati di questa “legge-ponte” sono sistematicamente vanificati da ripetute campagne di stampa contrarie, tentativi di dividere il movimento piemontesista, prese di posizione contrarie da parte di Enti statali (ad esempio l’Anas contro la toponomastica).
Nel 1990 la Regione approva una nuova Legge sulla tutela del patrimonio linguistico, la Tapparo-Nerviani (Legge Regionale 26/90), che nel corso del suo iter è stata snaturata dai compromessi con alcuni gruppi antipiemontesi. La “Legge 26” – che non riconosce affatto la lingua piemontese – resta inapplicata al 90% e viene in gran parte neutralizzata dalla volontà di “pilotare” i contributi più sostanzioni ad associazioni “amiche”, pur garantendo un piccolo contributo a tutti.
La crescita della sensibilità verso le lingue naturali, portatrici di culture e identità originali, a livello legislativo sfocia, dopo diverse Raccomandazioni internazionali, nell’approvazione della Carta Europea delle Lingue Regionali o Minoritarie (Consiglio d’Europa, 1992). Tale documento, elevato a Convenzione, chiede agli Stati membri l’applicazione di specifiche misure per la protezione e la promozione di tali lingue, in particolare il loro pieno riconoscimento, la promozione dell’uso scritto, l’insegnamento nella scuola e nell’università, l’abolizione delle discriminazioni volte a scoraggiarne l’utilizzo (ad esempio, tramite la riduzione a una visione macchiettistica sui mezzi di comunicazione), l’adozione della toponomastica tradizionale, l’utilizzo non soltanto nell’ambito culturale (ad esempio, anche in quello dell’informazione).
Frattanto il piemontese era già stato giuridicamente riconosciuto “lingua” dal Consiglio d’Europa (nel 1981) e dall’UNESCO. Lo stesso Comitato intergovernativo della Convenzione dell’UNESCO per il Patrimonio immateriale dell’Umanità, nell’ottobre 2005 ha poi riconosciuto alle lingue locali il diritto ad essere impiegate nelle scuole, nelle università e nei media, in quanto espressione delle diverse comunità e strumento di coesione sociale.
Nel 1997 viene presentata una proposta di modifica alla legge regionale in vigore (Rosso, Dutto, Farassino, Bellingeri); malgrado i nuovi compromessi e alcuni tentativi per snaturarla, la versione approvata (Legge Regionale 37/97) che va a integrare la L.R. 26/90 dà un riconoscimento normativo alla lingua piemontese.
Malgrado un provvisorio rifinanziamento, l’applicazione della legge così modificata non si discosta dal sistema precedente; in particolare si segnala la mancanza di criteri univoci e il largo spazio lasciato alla discrezione dei dirigenti della Regione, fatto che nei primi anni provoca tensioni anche forti con le associazioni (Gioventura Piemontèisa ricorre al TAR).
Nel 1998, dietro forti pressioni internazionali, il parlamento italiano inizia la discussione di un disegno di legge per conformarsi a quanto richiesto dagli organi comunitari, vale a dire dare attuazione alla Convenzione Europea delle Lingue Regionali o Minoritarie. La proposta – che pare ispirata da una lobby di minoranze autonomitatesi “di serie A” – elenca le lingue che sarebbero “degne” di tutela; fra queste la lingua piemontese non è contemplata.
Il 17.6.1998 il provvedimento unificato che discrimina la lingua piemontese è approvato dalla Camera.
Al Senato viene presentato (primo firmatario Sen. Giancarlo Tapparo) un disegno di legge che ricomprende anche la lingua piemontese (N. 3426).
Inizia da parte di Gioventura Piemontèisa e della Consulta për la Lenga Piemontèisa una grande opera di sensibilizzazione che però si scontra con una volontà prevaricatrice trasversale (dalla quale non si esime la maggioranza dei parlamentari eletti in Piemonte – che la Consulta incontra più volte insieme alle autorità regionali) contro la quale nulla ottengono i pochi coraggiosi parlamentari che vi si oppongono.
Lo stesso Consiglio Regionale del Piemonte approva diversi ordini del giorno (scritti da Gioventura Piemontèisa e della Consulta) per evitare la palese discriminazione che si va attuando (n. 799 del 18 giugno 1998, n. 812 dell’8 luglio 1998 – dove si parla apertamente di “violazione dei diritti del popolo piemontese”, n. 1077 del 12 ottobre 1999). Infine, l’O.d.G. n. 1118 del 15 dicembre 1999, approvato all’unanimità in concomitanza con l’approvazione della discriminatoria legge statale, riconosce al piemontese lo status di «lingua regionale del Piemonte».
«Parli in piemontese? Sei incivile!»
In quello stesso 1999 viene istituito l’Albo Ufficiale dei Docenti di Lingua Piemontese, per sanare una situazione di anarchia nell’ambito della formazione e dell’insegnamento. Istituito dalla Consulta per la Lenga Piemontèisa, è da allora gestito ininterrottamente da Gioventura Piemontèisa. Un analogo tentativo, messo in piedi dalla Regione Piemonte senza nemmeno consultare i responsabili dell’Albo, non andrà oltre la conferenza stampa di presentazione.
L’insegnamento della lingua piemontese nelle scuole che ne facevano richiesta era stato portato avanti a partire dagli anni Ottanta dall’A.C.L.O.P.S. (Associassion për la Coltura Local Piemontèisa ant le Scòle), istituito da Camillo Brero con un gruppo di insegnanti elementari. La formazione continua portata avanti dal prof. Brero e l’impegno volontario di tante maestre e maestri ha dato la possibilità a un gran numero di bambini e ragazzi di entrare in contatto con l’identità piemontese.
Con l’anno scolastico 2000/2001 – dopo qualche classe sperimentale l’anno precedente – l’insegnamento della lingua piemontese entra ufficialmente nelle scuole (Progetto ARBUT) con il finanziamento della Regione, coinvolgendo diverse associazioni (fra le quali Gioventura Piemontèisa – ideatrice e realizzatrice del progetto sull’esempio di quanto realizzato da Camillo Brero – e la stessa A.C.L.O.P.S.). Non si tratta della traduzione di una precisa volontà politica dell’Ente, piuttosto di una forzatura politico-legislativa messa in atto da Gioventura Piemontèisa nei confronti della Regione Piemonte. Ne seguì una reazione che nel corso dell’anno successivo raggiunse l’obiettivo di spaccare il movimento piemontesista, di frenare l’attività della Consulta per la Lenga Piemontèisa e di minare la stessa esistenza di Gioventura Piemontèisa, che subì una violenta campagna denigratoria e di delegittimazione, perse alcuni dirigenti (minacciati) e venne diffidata pubblicamente dall’assessore Giampiero Leo mediante una lettera inviata alle scuole.
Il progetto dell’insegnamento della lingua piemontese proseguì spaccato fra diverse associazioni (Gioventura Piemontèisa perse ogni sostegno per due anni, e fu costretta a difendere la paternità del Progetto con l’aiuto coraggioso di insegnanti volontari), ma la Regione Piemonte non si assunse alcuna responsabilità in merito, non gestì in alcun modo il progetto scorporandolo e delegandolo fino a cinque soggetti diversi, riducendo gradualmente il proprio sostegno, fino ad azzerarlo con il 2011.
Fra il 2006 e il 2007 Gioventura Piemontèisa viene contattata dai ricercatori dell’IRES Piemonte; nel novembre 2007 viene pubblicato il Rapporto IRES Piemonte Quaderno 113. Gioventura Piemontèisa ne è come al solito censurata, ma il Rapporto conferma quanto sta affermando da anni: la lingua piemontese e ancora parlata da due milioni di persone e compresa da altre 1.140.000.
Nel 2005 in Regione vengono presentate sei proposte di legge per riformare la legge in vigore sul patrimonio linguistico. Benché esse siano puramente strumentali, l’Ente sta effettivamente considerando (per quali imput da Roma?) di “aggiornare la propria legislazione in materia di minoranze linguistiche per “uniformarla” alla legge dello Stato – vale a dire alla L. 482 che estromette la lingua piemontese!
Oltre 200 Comuni di tutto il Piemonte sostengono con forza l’iniziativa. Il 12.6.2008 i Sindaci dei Comuni capofila vengono ascoltati dalla Commissione regionale.
Caso unico nella storia dell’Ente, un progetto di legge con un tale sostegno non viene nemmeno preso in considerazione, ma “archiviato” come “superato”!
La sentenza della Corte Costituzionale (n. 170 del 13.5.2010) è di una gravità inaudita che ha dell’incredibile: dalla legge regionale vengono stralciate unicamente le parole “lingua piemontese” che, in aperta contraddizione con gli specialisti di tutto il mondo, i giudici definiscono “una variante della lingua italiana”. La sentenza, inoltre, contesta l’attribuzione al piemontese di un valore “non solo culturale”; quindi non soltanto mortifica una volta di più l’identità del popolo piemontese e l’autonomia delle sue istituzioni, ma addirittura viene rifiutato il principio stesso che le lingue minoritarie possano essere impiegate come lingue veicolari, relegandole a un ruolo subalterno di semplici “custodi della memoria” (in aperta contraddizione con tutte le direttive europee al riguardo, con il diritto internazionale e con la volontà manifestata a più riprese dei Piemontesi). Gioventura Piemontèisa definisce l’accaduto “un’aperta violazione dei diritti umani dei Piemontesi, sanciti tra l’altro dalla Dichiarazione Universale sui Diritti Linguistici”.Il 26 ottobre 2010 Gioventura Piemontèisa organizza una manifestazione di protesta di fronte al Consiglio Regionale del Piemonte per sollecitare l’immediata discussione delle proposte di legge in materia di lingua piemontese che sono depositate, ma che non vengono mai discusse: una (progetto di legge 8/10, Angela Motta e altri) per dare una legislazione regionale efficace alle lingue del Piemonte e un’altra (progetto di legge 10/10, Angela Motta e altri) per chiedere al Parlamento italiano (basandosi sull’interpretazione delle leggi vigenti) l’introduzione del piemontese nell’elenco delle lingue minoritarie riconosciute dalla L. 482/99. La manifestazione si conclude con la consegna di una proposta di ordine del giorno ai capigruppo; l’ordine del giorno viene depositato il 17 novembre, ma seguirà la stessa sorte delle proposte di legge e non verrà mai calendarizzato.Frattanto si manifestano gli esiti di una volontà politica che ormai appare chiara. Come accennato sopra, nel 2010/2011 gli operatori delle lingue minoritarie perdono ogni sostegno da parte dell’Ente; i corsi e gli interventi nelle scuole vengono più che dimezzati e, l’anno successivo, azzerati. Si concretizza lo smantellamento del settore regionale dedicato alla promozione delle lingue minoritarie, già iniziato con la messa “in esaurimento” dell’ufficio dal lontano 2001 (un giornale definì i settori in esaurimento come “destinati a sparire in poco tempo, o ad essere incorporati altrove”) e il suo progressivo accorpamento con altre generiche attività di promozione culturale.
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La legislatura a Roma si conclude senza che nessuno dei disegni di legge nel frattempo presentati venga calendarizzato.