Un genere letterario che ha ispirato molti poeti e scrittori piemontesi
Trecento anni di «fàule»
Dalle «Favole morali» del Calvo (1773-1804) «requisitoria audacissima contro il malgoverno francese» alla «cita-fàula» del contemporaneo Alfredo Nicola, che ci invita a non essere come «L’urtija».
È la collaudata saggezza dei nostri antichi che avverte: «Badinand con discression as peul desse d’avis bej e bon!» (Scherzando con discrezione si posson dare ammonimenti belli e buoni); e che «un bel parlé an figura a val ëd pì che na chiriela dura!» (un bel parlare figurato vale più di una sgridata dura).
In armonia con tale filosofia si sviluppa in Piemonte una ricca letteratura «Favolìstica» più o meno moraleggiante e sempre garbatamente ironica ed arguta. Una letteratura troppo poco conosciuta che, pure, ha sollecitato l’ispirazione di non pochi poeti e scrittori piemontesi degli ultimi trecento anni.
Non fu solo il sempre attuale patrimonio esopiano o l’opera del raffinatissimo poeta latino Fedro ad ispirare i nostri favolisti; né solamente l’influsso del geniale scrittore francese La Fontaine che indusse a «favoleggiare» i nostri scrittori del ‘700 piemontese, ma il senso naturale dell’ironia e della intelligente arguzia connaturata nell’anima popolare.
Il più valido degli scrittori «favolisti» della Storia Letteraria del Piemonte è Edoardo Ignazio Calvo (1773-1804) che per le sue dodici «Favole Morali» scritte in terza rima (1802-1803) si pone fra i migliori (…).
Non pochi sono, infatti, in quell’epoca gli scrittori italiani che coltivarono felicemente tale genere letterario (come il veneziano Gasparo Gozzi, il siciliano Giovanni Meli, il fiorentino Luigi Fiacchi il Clasio, il riminese Aurelio Bertola de’ Giorgi, etc).
Le «Favole» del Calvo sono «una requisitoria audacissima – scrive Pinin Pacòt – contro il malgoverno francese ed una denuncia delle miserie che ne derivavano…». Può leggersi, ancor oggi, il finale della «Fàula III – Platon e ij Pito» (Platone ed i tacchini) che ammonisce: «… a venta pa cariesse pi ‘d fagòt ch’un peul portene e për fé ij cont dla spèisa ant nòstra ca a venta ciamé gnun ch’ven-a agiutene» (non bisogna caricarsi di pesi superiori alle nostre forze; e per fare i conti della spesa a casa nostra non bisogna chiamare nessuno per farsi aiutare).
Ed il Calvo divenne, così, in Piemonte il capo-fila di una notevole schiera di scrittori che si servirono della «Favole» per rispondere ad un impegno didattico, moralistico ed educativo.
Va ricordato Giuseppe Arnàud ëd Moncalé, magìster ëd Lingua italiana, che scrisse, tra l’altro, sedici Favole Morali in una limpida e preziosa prosa che risultano essere un esemplare modello di bella prosa letteraria in lingua piemontese.
Con Lui, il poeta Vincenzo Andrea Peyron, autore di una raccolta di «Fàule Piemontèise poètiche, crìtiche, leterarie e moraj» in tre volumi (1830-1831).
Più vicino alla bella poesìa è l’opera di Carlo Gio. Battista Casalis di Moncalieri, autore fecondo e vario di opere in lingua piemontese. Le sue «XXV Fàule Esopian-e» sono certamente le migliori – a debita distanza dopo quelle del Calvo. È sua la rassegnata conclusione della favola clàssica de «L’Agnel e ‘l Luv» che recita: «Sté tant ch’ podré lontan da ‘d lite e ‘d gare con ‘d prepotent… (State il più lontano possibile da liti e gare con i prepotenti…). Infatti costoro: «avend pì ‘d fil sempre a faran pì ‘d tèila» (avendo più filo faranno sempre più tela).
Di buona fattura anche le «Quìndes Fàule» di Luigi Rocca, che fu anche buon autore di Teatro.
Sapore di favola hanno alcuni dei pungenti epigrammi (1802-1803) di Agostino Bosco da Poirino, così come quelli (1830) di Giovanni Maria Regis detto l’Armita Canavzan.
Vale ricordare che anche il poeta Norberto Rosa (1803-1862) ha voluto ispirarsi – in un particolare momento della sua vita – a «Le fàule ch’Esòp a l’ha inventà», convinto che da quelle si posson ricavare, ancor oggi: «ëd bon consej per vive an società» (dei buoni consigli per vivere in società). Anche perché sa che: «… a-i é al mond certi sonaj che a parlo ancora pess che j’animaj!» (ci sono al mondo certe teste vuote che parlano ancor peggio degli animali)!
Anche il noto scrittore e pittore Edoardo Calandra (1852- 1911) si servì – nella sua opera in lingua piemontese – della «fàvola». Un tono, il suo, tra il severo ed il faceto come nella sua «Fàvola del lassé core» (Favola del lasciar correre) che termina ammonendo: «… che a vive an pas an cost pòvr mond a bzògna lassé core e ant j’afé dj’àitr nen fiché tròp èl nas; ch’un peul ciapesse ‘d ganassà ant le man pijand l’impèisa ‘d drissé le gambe ai can» (che per vivere in pace in questo povero mondo bisogna lasciar correre e negli affari altrui non ficcare troppo il naso; che uno può prendersi delle morsicate nelle mani prendendosi l’impresa di raddrizzare le gambe ai cani).
Si può ben affermare, poi, che nel nostro secolo molti sono gli scrittori di casa nostra che hanno ceduto all’incanto della «Favola». Due nomi sopra tutti: Nino Autelli (1903-1945) e Nino Costa (1886-1945). È certamente un gioiello della Letteratura Piemontese del Novecento Piemontese la prosa delle favole e delle leggende raccolte da Nino Autelli nel suo libro «Pan d’ coa» (pane casalingo).
Ed è doveroso ricordare la fresca arguzia delle favole che Nino Costa ha raccolto nel volume «Sal e pèiver» (1924), negli anni in cui a Roma Trilussa trovava nella favola e nell’apologo la sua espressione più congeniale.
Una poesia, quella di Nino Costa, che nella favola assume un bonario sapore didattico, attento sempre al messaggio degli animali e delle cose. Come quello raccolto da: «La lòdola ‘nt ël cél, àuta, che a vòla e a canta la canson dla libertà». (L’allodola che nel cielo, alta, vola e canta la canzone della libertà).
Quella libertà che vede sublimata nel volo del «Farchet ëd montagna» (falco di montagna) per il quale è: «mej sente sla testa l’afann dla tempesta la furia dël tron, che meuire ‘d cancren-a tra ij fer dla caden-a e ‘l foèt dël padron» (meglio sentire sulla testa l’affanno della tempesta e la furia del tuono, che morire di cancrena tra i ferri della catena e la frusta del padrone).
Altri in questi ultimi anni raccolgono – come l’Anvod dij Bré – sotto il colore educativo della favola, il loro messaggio di «Bin» (amore e bene); ed altri ancora dalla «favola» ricavano motivi di poesìa ammonitrice e didattica. Come Alfredo Nicola (Alfredino) che in una sua «cita fàula» (minifavola) ci invita a non essere come «L’urtija» (l’ortica): «L’urtija l’era dasse così tant ed “lass-me sté” ch’as podìa nen toché!». (L’ortica si era data così tant’aria di “lasciami stare” che non la si poteva toccare)!
È l’utopìa della «Favola»: creare un mondo di… favola!
Camillo Brero
La Stampa (Piemonte), 8.3.1991
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