«Tòni», trecento anni di satira

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I componimenti in piemontese sono nati ai tempi di Carlo Emanuele I

Il duca racconta in versi: «A l’é quel bufon dël fra’ / ch’ha perdut ël Monferà (È quel buffone del frate che ha perso il Monferrato). L’influsso esercitato dalla cultura spagnola

 
Si può ben affermare che la prima, vera voce della poesia e della letteratura in lingua piemontese si fa sentire ─ in tutta la sua armonia moderna ed attuale ─ nei primi anni del 1600 con il caratteristico componimento poetico detto «Tòni». Quello che il «Dictionnaire portatif Piémontais-Français par Louis Capello, Comte de Lanfranco – Turin, 1814» definisce: Poesìa Piemontèisa: Couplet, Vaudeville, Poésie, Chansonnette».

Erano i tempi del Duca Carlo Emanuele I (1562-1630), lui stesso autore di versi in piemontese. Noto è suo «Tòni» (scritto per licenziare e farsi beffe del vescovo a lui inviato dal Duca di Mantova e Monferrato, Federico Gonzaga, per tentare di risolvere la questione del Monferrato) che così incomincia: A l’é quel bufon del fra’ ch’ha perdut ël Monferà. El pensava mincioner tut col fluss de sò paròle…». (È quel buffone del frate che ha perso il Monferrato. Egli pensava di ingannare tutti con il flusso delle sue parole).

Si deve, certamente, alla genialità irrequieta di questo Duca l’inizio di un’epoca più attenta all’espressione letteraria in lingua piemontese. È, forse, attribuibile al clima da lui creato il vero inizio della nostra letteratura, quella espressa nella lingua di uso quotidiano, quella che è ispirata dalla spontaneità dell’anima popolare, ripulita dai freddi influssi della lingua dotta, e finalmente libera dai complessi di inferiorità.

Non è inutile qui ricordare quanto il citato autore del «Dictionnaire» dice nel «Discours préliminaire»: «Sans prétendre donner ici une idée avantageuse de notre langage, je conviendrai avec M. l’Abbé Charles Denina que si le dialecte Piémontais eut été cultivé du temps du premier Duc Amédée VIII ou seulment d’Emmanuel Philibert, il serait devenu dans ce moment une langue illustre, au moins autant que le sont la Portugaise et la Hollandaise, dont l’une est à l’Espagnole, l’autre à l’Allemande ce que la Piémontaise est à l’Italienne…».

È in questa lingua, libera da contaminazioni, ricca di freschezza popolare, che nacque il «Tòni», la caratteristica composizione poetica satirica piemontese, sorta in rapporto con la musica. Dal suo apparire la denominazione scritta del «Tòni» fu «Canson», così come appare anche dai primi «Tòni» giunti a noi: «La canson ëd Madòna Luchin-a», «La Canson dij dësbaucià», «La canson ëd la Baleuria», «La canson dël tramué ‘d San Michél».

Questi «Tòni» annunciati come esistenti dagli studiosi (da Bernardino Biondelli a Luigi Collino, a Pinin Pacòt) sono stati rintracciati nel 1968 da Amedeo Clivio, dietro indicazioni di Gianrenzo P. Clivio, cattedratico a Toronto, presso la Biblioteca Reale di Torino. Scritti nel linguaggio «piemontese seicentesco di tipo essenzialmente torinese in tutta la sua purezza e senza traccia alcuna di influsso italiano» ritraggono «aspetti della vita torinese dell’epoca» e preludono a quella che sarà l’opera di P. Ignazio Isler (1702-1788).

La denominazione caratteristica di «Tòni», che si è creduto di far derivare semplicisticamente dal nome di un personaggio di una delle «Commedie pastorali» dell’epoca, credo, invece, debba rifarsi alla parola «tono» (latino «Tonus») che significa la forma melodica del canto gregoriano, la cui eco risuona nelle musiche dei «Tòni», anche in quelli che P. Ignazio Isler scriverà e musicherà oltre cento anni dopo, seppur in forma più evoluta. Pur senza soffermarsi a quantificare l’entità dell’influsso che la cultura spagnola ebbe, allora, sulla cultura del Piemonte, è utile ricordare che proprio nei primi anni del 1600 nascono in Spagna i «Tonos Castillanos», così come nascono in Piemonte i «Tòni». Le due espressioni letterarie (e musicali) hanno non pochi particolari in comune che ci inducono a pensare ad un principio ideale comune.

Sotto il titolo di «Tonos Castillanos» si trova ─ in un libro conservato nella Biblioteca del Duca di Medinaceli ─ un buon numero di «Canzoni Anonime» create sopra dei testi di Lope de Vega (1562-1635). Anche quelle canzoni (Tonos) erano (come i «Tòni» piemontesi) una sequenza di strofe (quartine e ottave) a rime incrociate con varianti.

Anche i «Tonos» erano accompagnati da uno strumento a corde come il liuto, così come i «Tòni» di casa nostra. Una armoniosa affinità emerge, per esempio, tra il «tonos» che canta:

«Oh que bien que baila Gil
con las mozas de Barajas…».

Oh come balla bene Gil con le ragazze di Barrajas (piccolo villaggio vicino a Madrid) ed il nostro «Tòni» al ritmo di «corenta» che canta:

«Balo mej le paisanòte
che le tòte dë Turin…».

(Ballano meglio le contadinelle, che le signorinelle di Torino).

La voce più alta del «Tòni» piemontese di ogni tempo resta, comunque, quella di P. Ignazio Isler. Dice Pinin Pacòt: «Padre Isler si presenta come il primo anello di una tradizione di poesia satirica e giocosa che attraverso il cav. Borrelli, il Ventura, il Calvo nel ‘700, e il Padre Frioli nell’800, arriva fino al Brofferio ed al Rosa, i quali ultimi, sulle orme del Béranger assumono il tono più moderno del Chansonnier romantico, senza tuttavia allontanarsi troppo dallo spirito della satira nostrana».

Una tradizione che esprime ancora la sua vitalità nel Novecento, in componimenti ─ sapor di «Tòni» ─ di Carlo Baretti, Pinòt Casalegno, Nino Costa, Silvio Einaudi. Con la voce del grande Isler il «Tòni» ripete ancor oggi:

«Al folet malinconìa
e chi veul covela an sen,
chi veul ‘d crussi ch’as jë pija
ch’mi në veuj savej ëd nèn…».

(Al folletto la malinconia e chi vuol covarsela in seno; chi vuole dei crucci se li prenda, ch’io non ne voglio sapere).
Ancor oggi con Norberto Rosa il nostro «Tòni» constata amaramente che:

«Chi l’ha dit che costa téra
l’è n’inmensa gabia ‘d mat
a l’ha dit na còsa vera
come doi e dai fan quatr.
Che d’ambreuj! Che ‘d gofarìe!
Che ‘d facende! Che d’afé!
Ah, lasseme rije, rije s’nò finisso për pioré!

(Chi ha detto che questa terra è un’immensa gabbia di matti, ha detto una cosa vera, come due più due fanno quattro. Quanti imbrogli! Quante goffaggini! Quante faccende! Quanti affari! Ah, lasciatemi ridere, ridere, altrimenti finisco per piangere!).

È con la voce di Nino Costa che la poesia prende le vesti del «Tòni» per proclamare:

Na canson dla nòstra tèra,
fà pì gòj che na cocarda!…

(Una canzone della nostra terra fa più piacere d’una coccarda)!

Camillo Brero
La Stampa, 12 Giugno 1991

 
 

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