LE LINGUE PARLATE NEL TERRITORIO DELLO STATO ITALIANO

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Proposte per una politica di Plurilinguismo Integrale

Testo a cura di:
Dr. Roberto Bolognesi – linguista Università di Groningen (Paesi Bassi)
Matteo Incerti – Giornalista pubblicista

Il testo seguente e’ stato redatto in occasione del Convegno sulle Lingue Regionali, promosso al Parlamento Europeo di Strasburgo il 18 novembre 1999 da parte del gruppo parlamentare Autonomista dell’Alleanza Libera Europea e dal gruppo dei Verdi. La nostra redazione ne ha evidenziato alcuni passaggi.

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Introduzione

Nelle proposte che qui presentiamo, ci siamo prefissi l’obiettivo di indicare, in base a criteri il più possibile tecnici, le lingue minoritarie presenti nel territorio dello Stato italiano. Comunque, rispetto al problema della distinzione fra lingue e dialetti, è importante precisare da subito che una simile distinzione è, oltre certi limiti, tecnicamente impossibile, oltre che politicamente pretestuosa. Citiamo in proposito le parole di Guido Barbina: “Tralasciamo, perché puramente accademico e a volte fuorviante il pretestuoso problema della differenziazione fra lingua e dialetto: una simile distinzione, peraltro impossibile, non ci porterebbe certamente a chiarire il problema di una corretta classificazione dei casi di difformità linguistica italiani”.

Al contrario del convincimento diffuso fra i profani, quando un linguista parla del “dialetto X della lingua Y”, non sta descrivendo un rapporto fra due entità linguistiche collegate gerarchicamente, ma sta solo cercando di risparmiare le molte parole che gli occorrerebbero per ripetere che si sta riferendo ad un certo sistema linguistico X, il quale per comodità si può indicare come varietà socialmente e/o geograficamente delimitata di una famiglia di idiomi sufficientemente omogenea da poter essere indicata, sempre per comodità, come lingua Y.

Da un punto di vista strettamente tecnico, in effetti, il dialetto X si può altrettanto giustificatamente definire come lingua in quanto sufficientemente definito e circoscritto, mentre la lingua Y andrebbe più giustamente definita come famiglia di dialetti Y.

Queste definizioni, però, non tengono conto del fatto che nessuna lingua, neppure la parlata di in un piccolo villaggio di montagna, costituisce un sistema interamente omogeneo: i giovani parlano in un modo almeno leggermente diverso dagli anziani, e così le donne rispetto agli uomini, e così pure le diverse classi sociali tendono a differenziarsi linguisticamente. Questa situazione già molto fluida anche a livello strettamente locale si complica enormemente quando si prendono in considerazione i diversi dialetti, cioè quelle varietà della lingua che vengono usate in territori distinti. Tenendo conto di questa realtà, quindi, anche la somma di tutti queste parlate locali e sociali si può altrettanto giustificatamente definire come lingua: una famiglia di dialetti che condividono una serie di caratteristiche, escludendone invece altre.

La decisione di quali siano le caratteristiche che distinguono una lingua dall’altra è comunque sempre almeno in parte arbitraria, perché le lingue appartengono a loro volta a famiglie linguistiche formate da lingue simili, spesso confinanti e aventi un’origine comune. Nella pratica succede spesso che per comodità si usino definizioni geografiche di lingue e dialetti, anziché strettamente linguistiche. Tecnicamente, perciò, i termini lingua e dialetto sono, se non perfettamente equivalenti, certamente interscambiabili e il loro uso non implica nessuna precisa distinzione genetica e/o gerarchica. Meno che mai viene sottinteso un giudizio di valore.

Quando usa il termine dialetto, perciò, un linguista non fa altro che avvertire il lettore o l’ascoltatore che sta restringendo la sua attenzione ad una serie limitata di fenomeni linguistici che sono presenti in una data varietà (poco o punto conosciuta), e assenti dalle varietà strettamente collegate della stessa lingua (invece già nota). Per esempio, definendo il sestese come dialetto campidanese meridionale del sardo, si fornisce immediatamente una serie di informazioni sull’altrimenti indefinita lingua parlata nel villaggio di Sestu (prov. di Cagliari).

L’uso dei termini lingua e dialetto che invece si fa in politica implica un rapporto gerarchico fra le due entità e un giudizio di valore: lalingua sarebbe qualcosa di superiore al dialetto; il dialetto una forma degenerata, o comunque inferiore, della lingua. Quest’uso linguisticamente infondato dei due termini è il risultato di una scelta politica molto comune che restringe l’uso del termine (titolo onorifico, verrebbe da dire) lingua alla lingua ufficiale dello stato, applicando agli altri idiomi la qualifica di dialetti. Il linguista norvegese Einar Haugen ha provocatoriamente illustrato questa distinzione pseudo-linguistica con le seguenti parole: “Una lingua è un dialetto con alle spalle un esercito e una flotta”.

In termini leggermente più neutri possiamo dire che in politica solitamente si concede la dignità di lingua agli idiomi di chi dispone di mezzi di pressione sufficienti a farsi riconoscere come comunità etnico-linguistica distinta da quella maggioritaria.

Una volta ottenuto lo status di lingua (e i relativi finanziamenti), anche gli idiomi minoritari possono venire dotati di tutti quegli strumenti, esterni ai sistemi linguistici stessi, che caratterizzano le lingue ufficiali degli stati: una norma standard, grammatiche e dizionari redatti in modo professionale, l’insegnamento nelle scuole, lo sviluppo di testi prestigiosi, l’uso in occasioni e documenti ufficiali.

Contrariamente a quanto si pensa normalmente, questi strumenti sono la conseguenza, e non la causa, dello status ufficiale di unalingua. I dialetti ne sono privi unicamente a causa della debolezza politica e/o economica delle comunità linguistiche in cui vengono parlati.

Nel preparare questo documento sulle diverse lingue minoritarie parlate oggi nel territorio dello Stato italiano, abbiamo rifiutato la distinzione pseudo-linguistica fra lingue e dialetti. Abbiamo invece suddiviso i diversi idiomi in due gruppi, in base alla loro posizione politica: da un lato, quelli la cui diversità e specificità rispetto all’italiano vengono già riconosciute a livello internazionale e sono in via di riconoscimento da parte dello Stato italiano, e dall’altro quelli che ancora oggi vengono totalmente negati e discriminati da parte dello Stato, ma che a livello regionale e anche da parte di studi internazionali vengono riconosciuti come lingue, cioè come sistemi linguistici ben distinti dall’italiano.

In pratica, dalla nostra analisi risulta che tutti i cosiddetti dialetti italiani sono lingue distinte, e non dialetti dell’italiano. Fatta eccezione per il toscano e il romanesco, i cosiddetti dialetti italiani sono tutti lingue che si sono sviluppate in modo autonomo e diverso rispetto al fiorentino che ha costituito la base per l’italiano standard: il piemontese e il napoletano, per esempio, non meno che il sardo e il friulano.

1. Le Lingue in via di riconoscimento da parte dello Stato italiano

Nella realtà politica italiana l’uso spregiudicato delle arbitrarie definizioni di lingua e dialetto è servito finora ad aggirare l’articolo della Costituzione che prevede la tutela delle minoranze linguistiche. I diritti linguistici delle minoranze sono finora stati elusi etichettando come dialetti, anziché come lingue, tutti gli idiomi minoritari che non godono della tutela di uno stato confinante dell’Italia: in pratica, tutte le lingue minoritarie meno il francese, il tedesco e lo sloveno, la cui tutela è stata garantita da trattati internazionali.

Oggi, per fortuna, l’atteggiamento verso le minoranze etnico linguistiche sta cambiando lentamente anche in Italia. La Camera dei Deputati ha approvato un provvedimento (legge n. 196), che aspetta ora l’approvazione del Senato (legge n. 3366), riguardo alla valorizzazione di un primo gruppo di lingue regionali e minoranze etnico-linguistiche.

Questa legge costituisce un passo importante per le lingue riconosciute e prevede l’introduzione del bilinguismo nelle istituzioni e nel sistema educativo, ma discrimina ancora altre lingue regionali, arbitrariamente escluse dal provvedimento. Nel testo originale del provvedimento esisteva un articolo della legge che prevedeva un futuro allargamento delle lingue riconosciute dando di fatto potestà legislativa in materia alle Regioni e non più allo Stato.

Ma l’azione politica dei Deputati di Alleanza Nazionale, che ha trovato su questo punto la convergenza di Deputati dell’opposizione di Centrodestra ed anche di ampi settori della maggioranza di Centrosinistra, ha fatto sì che questo articolo della legge fosse eliminato dal testo definitivo. Rispetto a questo punto, riteniamo molto grave la decisione negare alle Regioni ed alle Comunità Locali il diritto ad autodefinirsi come rappresentanti legittime delle minoranze etnico-linguistiche del proprio territorio.

E’ stato adottato invece ancora una volta il principio della Ragion di Stato, per cui è la maggioranza a disporre a proprio piacimento dei diritti delle minoranze. Per negare i diritti delle minoranze, pur riconosciuti dalla Costituzione, è ancora sufficiente per la maggioranza negare l’esistenza di queste: in pratica basta continuare a definire le lingue minoritarie come dialetti.

Come esempio dell’arbitrarietà di questa situazione valga il caso del sardo: fino al 1995 il governo italiano parlava di dialetti sardi, negandone la dignità linguistica, due anni dopo veniva approvata dal governo la legge regionale n. 26/97 sulla lingua sarda. Linguisticamente in Sardegna non era cambiato nulla, ma in Italia era cambiata la maggioranza di governo.

Le Comunità Etnico-Linguistiche riconosciute dalla legge n. 169

Albanesi – 98. 000 persone che vivono nelle regioni meridionali e precisamente in Calabria, Sicilia, Puglia e Abruzzo.

Sud Tirolesi – 290. 000 persone che vivono nella Provincia Autonoma di Bozen-Bolzano (65,43% della popolazione residente in Sud Tirolo). Queste persone parlano il tedesco.

Carinziani – 2. 000 persone che vivono nella Provincia di Udine in Friuli (0,38% della popolazione locale della Provincia di Udine)

Carnici – 1. 400 persone che vivono in Provincia di Belluno nel Veneto (0,66% della popolazione locale della Provincia di Belluno)

Catalani – 18. 000 persone che vivono nella città di Alghero in Sardegna, che hanno origini catalane e parlano il catalano.

Croati – 2. 600 persone che vivono nella Regione del Molise (0,79% della popolazione residente in quella Regione)

Franco-Provenzali-Valle d’Aosta – Circa 90. 000 persone che vivono nella Regione Autonoma della Valle d’Aosta ed in Piemonte. Le comunità più numerose vivono nella città di Aosta (60% della popolazione residente) e a Torino (0,89% della popolazione cittadina).

Francofoni della Valle d’Aosta – 20. 000 persone in Valle d’Aosta (17,33% della popolazione residente nella Regione Autonoma della Valle d’Aosta).

Friulani – 526. 000 persone che vivono nella Regione Autonoma del Friuli. Questo gruppo etnico rappresenta il 56,32% della popolazione residente in Friuli. La Regione Friuli ha una propria legge per la valorizzazione della Lingua Friulana e diverse amministrazioni locali, tra le quali quella di Udine, hanno approvato con la sola contrarietà o astensione dei gruppi dei CCD del Friuli (democristiani conservatori) e di Alleanza Nazionale, iniziative che attuano il bilinguismo.

Greci – 20. 000 persone che vivono nella Provincia di Reggio Calabria (0,89% della popolazione residente) e nella Provincia di Lecce, Puglia (1,88% della popolazione della provincia di Lecce).

Ladini – 55. 000 persone che vivono tra il Trentino,il Sud Tirolo e la Provincia di Belluno, nel Veneto. I Ladini rappresentano in provincia di Bolzano il 4,19% della popolazione locale, in Provincia di Trento l’1,69% e in Provincia di Belluno il 10%. Per le elezioni che si svolgono nel Trentino-Sud Tirolo esiste una speciale normativa approvata nel 1998 che assegna al gruppo Etnico Ladino una propria rappresentanza politica elettiva.

Occitani – 178. 000 persone, delle quali 50. 000 circa parlano regolarmente la lingua occitana. Gli Occitani sono residenti nella Provincia di Cuneo, nella Regione Piemonte (4,19% della popolazione residente), nella provincia di Torino e in quella di Imperia, Liguria. A livello culturale, il mondo occitano negli ultimi anni sta vivendo una “nuova primavera” con iniziative,concerti,pubblicazioni. Questi progetti vengono realizzati anche con l’aiuto di fondi comunitari.

Sardi – 1269. 000 persone che vivono e risiedono nella Regione Autonoma della Sardegna e rappresentano il 77,48% della popolazione dell’Isola. La Regione Sardegna sta attuando, negli ultimi anni, diversi piani per sviluppo di una forma standard scritta, tutelando al tempo stesso tutte le varianti locali della Lingua Sarda. Progetti per l’insegnamento del Sardo sono avviati dalle Province e da diversi Comuni.

Sloveni – Circa 70. 000 persone che vivono nella città di Trieste (9,6% della popolazione) nella provincia di Gorizia (8% della popolazione) e di Udine (3%della popolazione)

Walser, Cimbri, Mocheni – La valorizzazione di questi gruppi etnolinguistici germanici avviene tramite la protezione del gruppo etnico Germanico residente nel Sud Tirolo, nonostante queste Comunità non siano residenti su quel territorio. I Walser risiedono in Valle d’Aosta e Piemonte nelle Province di Vercelli e Novara, i Cimbri in Veneto (Verona e Vicenza) e Trentino(Trento) e i Mocheni nella Provincia autonoma di Trento.

*Valorizzazione linguistica e culturale delle Comunità Zingare di Sinti e Rom

In un primo tempo diverse proposte di legge, prevedevano la valorizzazione anche dei 130. 000 cittadini di etnia Rom e Sinti. Successivamente la legge è stata modificata perché la maggioranza dei deputati del Parlamento italiano non ha ritenuto che sussistessero le condizioni per il riconoscimento, in quanto mancava un riferimento di questa cultura ad un territorio specifico. Seguendo le proprie tradizioni, infatti, le Comunità Zingare non sono stanziali, ma prevalentemente nomadi.

2. Le lingue discriminate dallo Stato italiano

Veneto

La Lingua Veneta, parlata nella Regione Veneto è tra quelle discriminate e “tagliate” da parte dallo Stato italiano, che la classifica erroneamente come un dialetto dell’italiano. Secondo una ricerca del 1998 dell’Istat (l’Istituto Statistico italiano), anziché usare l’italiano, il 52% degli abitanti del Veneto parla principalmente la lingua regionale, che per mille anni fu la lingua ufficiale della Serenissima Repubblica di Venezia.

Nel marzo 1995 la Giunta Regionale del Veneto, su iniziativa dell’allora assessore Ettore Beggiato (oggi consigliere regionale di Veneti d’Europa), pubblicò un “Manuale della Grafia Veneta Unitaria”. Diverse amministrazioni comunali del Veneto hanno poi adottato il bilinguismo veneto-italiano nei propri atti. Nelle ultime legislature della Regione Veneto, sono state presentate da più gruppi, svariate iniziative a sostegno della lingua veneta e una mozione per il suo riconoscimento è stata presentata il 20. 5. 1998, con Ettore Beggiato come primo firmatario.

Una variante della Lingua Veneta, il Talian, parlato da centinaia di migliaia di discendenti di immigrati veneti in Brasile, è stata decretata, per una settimana, lingua ufficiale in Serafina Correa, Stato del Rio Grande do Sol, Brasile. La Lingua Veneta viene classificata lingua nettamente distinta dall’italiano standard in diversi studi internazionali come l’Unesco Red Book of Endangered Languages (1993-1996) del professor Tapani Salminen –Università di Helsinky e l’EthnologueLanguages of the World, 13ma Edizione, pubblicato negli Stati Uniti d’America dal Summer Institute of Linguistics.

Il veneto costituisce uno degli esempi più chiari della malafede di chi pretende di discriminare le lingue sulla base della loro pretesa inferiorità: la lingua madre di diverse importanti personalità del passato, come l’esploratore Marco Polo o lo scrittore Carlo Goldoni, non era certo l’italiano-standard ma il Veneto.

Piemontese

Questa lingua parlata in Piemonte è di natura gallo-romanza. Lo Stato italiano invece la relega al rango di “dialetto” (da intendersi forma corrotta) dell’italiano-toscano. Questo nonostante esista un documento del Consiglio d’Europa (doc. 4745/12. 10. 81) che riconosce il Piemontese come lingua distinta, mentre una legge del Consiglio Regionale del Piemonte (n. 37/97, primo firmatario Roberto Rosso) riconosce questo idioma a livello regionale, prevedendo anche l’istruzione facoltative nelle scuole.

Lo Stato italiano non ha ritenuto valorizzare e riconoscere il Piemontese tra le Lingue Regionali e Minoritarie legalmente riconosciute. Contro questa decisione,sia il Presidente del Governo Regionale del Piemonte Enzo Ghigo (lettera del 26.5.1998) che il Consiglio Regionale del Piemonte praticamente all’unanimità con 35 consiglieri su 36, astenuta Rifondazione Comunista (risoluzione del 12. 10. 99) hanno protestato ufficialmente con il Governo.

A livello regionale esiste ora una Consulta per la Lingua Piemontese, che riunisce oltre venti associazioni culturali che si occupano del recupero e della formazione dei quadri scolastici per il futuro insegnamento nelle scuole. Il mancato riconoscimento da parte dello Stato italiano, impedisce però una azione più incisiva da parte dei Comuni e delle Comunità anche in campo internazionale.

Il primo documento storico ritrovato in lingua piemontese risale al XII Secolo ed è il Sermon Subalpengh, un documento di carattere religioso che si scaglia contro episodi di corruzione nelle gerarchie della Chiesa Cattolica. Studi come l’Unesco Red Book of Endangered Languages del professor Salminen,The Ethnlogue e l’Istituto Linguistico Scozzese dell’Isola di Sky Sabhal Mor Outaig,classificano il Piemontese come una lingua vera e propria separata dall’italiano.

Sul piano culturale, il Piemonte e la sua lingua e cultura da anni partecipano regolarmente attraverso associazioni culturali, al Festival Interceltico di Loriant.

Emiliano e Romagnolo

La Lingua Emiliana e quella Romagnola, parlate nella Regione Emilia e Romagna, sono anche esse classificate dallo Stato italiano dialetti (semplici varietà) dell’italiano-toscano, quindi non suscettibili di riconoscimento come lingue distinte. Anche questo è un falso di Stato. Lo dimostra il fatto che l’Unesco Red Book for Endangered Languages del professor Tapani Salminen (che è anche membro della Commissione dell’Unesco che si dedica di Lingue Regionali e Minoritarie) riconosce l’Emiliano come Lingua Gallo-Romanza e non italo-romanza. Fra l’altro, la lingua viene parlata pure nello Stato di San Marino secondo l’Unesco. Lo stesso riconoscimento viene dall’Ethnologue, che parla dell’Emiliano e del Romagnolo come “structurally separated language from Italian”, (‘Lingua strutturalmente separata dall’italiano’).

Per il Romagnolo in particolare, un’altro importante riconoscimento viene da Meic Stevens che lo indica come idioma distinto dall’italiano e facente parte della sottofamiglia emiliano-romagnola.

A livello amministrativo regionale, la Regione Emilia e Romagna nel 1994 ha emanato una legge che pur denominando queste lingue “dialetti” (legge n. 45 del 7.11.1994 Tutela e valorizzazione dei dialetti dell’Emilia e Romagna) prevede anche la possibilità di finanziare iniziative scolastiche.

A parte un primo finanziamento nel 1995, in questi ultimi anni la legge non è stata utilizzata e promossa a dovere dalle amministrazioni della Regione Emilia e Romagna.

Data la distinzione pseudo-linguistica operata dallo Stato italiano, però, il termine “dialetti”, introdotto nel testo della legge regionale, impedisce un ulteriore passo avanti verso un riconoscimento ufficiale. Una delle obiezioni che vengono mosse contro il riconoscimento dell’Emiliano è che esistono diverse varianti (dialetti) e non una lingua standard scritta.

Chi muove questa obiezione confonde la causa con l’effetto: tutte le lingue non standardizzate mancano, appunto, di una forma standard. Questa arriva, appunto, in seguito ad un riconoscimento ufficiale che rende possibile e necessario lo sviluppo di una forma standard. Il sardo, per esempio, già riconosciuto da anni a livello europeo ed in via di riconoscimento a livello ufficiale italiano, non ha ancora una forma scritta standardizzata e presenta invece molte varianti locali: esattamente come tutte le lingue che non hanno ancora subito l’azione livellatrice e omologatrice di una politica linguistica centralizzata.

E’ la stessa situazione dell’Emiliano o di altre lingue regionali, ancora non riconosciute ufficialmente e relegate, dal punto di vista legislativo e psicologico, nel ghetto di Stato dei “dialetti”. Anche se non esiste una lingua standard, gli emiliani quando parlando nella loro variante locale possono capirsi a vicenda senza grandi problemi. Nella Regione Emilia e Romagna in questi anni si è notato un rifiorire di iniziative musicali ed anche culturali che hanno come tema le parlate di questa Regione. Esistono anche gruppi musicali di giovani.

Riguardo all’insegnamento scolastico, purtroppo non ancora diffuso, è da segnalare un positivo esperimento, fatto nel 1979-80 dal direttore didattico Gastone Tamagnini, presso la Scuola Media Statale “M. Buonarotti” di Fabbrico, in provincia di Reggio Emilia. In questo intervento sperimentale, agli alunni fu insegnato per due mesi la cultura e lingua del posto. Esperimenti altrettanto positivi dell’utilizzo della Lingua Romagnola nelle Scuole sono stati avviati nella Scuola Elementare “Martiri Fantini” di Cervia (Ravenna) dalle professoresse Claudia Benedetti e Fabiana Giunchi.

A livello televisivo, trasmissioni quotidiane in lingua emiliana nella variante reggiana e bolognese vengono trasmesse da due emittenti locali private Teletricolore (L’Almanacco di Auro Franzoni) e da Sesta Rete (Notiziari Bulgnais).Il dizionario tascabile di Lingua Bolognese/Emiliana di Luigi Lepri e Daniele Vitali, pubblicato nel 1999 a dalla casa editrice Vallardi ha venduto in poche settimana diverse migliaia di copie, e ora è pronta una seconda ristampa. Un successo che la dice lunga sull’interesse dei cittadini/pubblico sulla riscoperta e la valorizzazione, proiettata nel futuro, delle proprie radici.

Lombardo

L’Unesco Red Book of Endangerd Languages riconosce anche al Lombardo lo status di lingua, appartenente al ceppo gallo-romanzo. Ed è il Lombardo, e non l’italiano-toscano, che viene parlato da oltre 300.000 persone in Canton Ticino (Svizzera) e anche in alcune vallate del Trentino, confinanti con la Lombardia, secondo lo studio dell’Unesco ed l’Etnologue. In generale tutte le parlate lombarde “sono molto differenti dall’italiano standard” e secondo lo studio di Ethnologue “i parlanti possono essere senza problemi bilingui”.

Nel Canton Ticino, le amministrazioni locali del Cantone da tempo attuano una politica di valorizzazione della parlata lombarda che purtroppo, non viene emulata dalla Regione Lombardia. Quest’anno, il 26-27 marzo presso l’Università degli Studi di Pavia si è svolto un importante convegno su “Archivi culturali, oralità e scrittura”. Franco Lurà del Centro per il Vocabolario dei dialetti della Svizzera italiana -VSI) e Giovanni Bonfandini dell’Università di Milano hanno proposto nel loro intervento (“Problemi concernenti la costituzione di un archivio integrato scritto e orale dei dialetti lombardi”) la creazione di un Archivio delle parlate lombardofone. Su Internet sono presenti diverse iniziative di privati ed associazioni in favore del Lombardo nelle sue varianti linguistiche.

Ligure

Il ligure, classificato come lingua gallo-romanza dall’Unesco Red Book for Endangered Languages, da The Ethnologue e dall’universitàSabhal Mor Outaig, è parlato in una sua variante (il Monegasco) anche nel Principato di Monaco e nei territori francesi confinanti con la Liguria.

A livello privato, con associazioni culturali e gruppi musicali, sono presenti diverse iniziative per il recupero di questa lingua, a cui manca oggi una forma standard scritta. A livello amministrativo, il Comune di Alassio tre anni fa ha rinominato la toponomastica nella lingua ligure attuando una politica bilinguistica. Questo è stato fatto sfidando i divieti legislativi dello Stato italiano, che risalgono a norme emanate durante il regime fascista. Anche il ligure è considerato dallo Stato Italiano un “dialetto” e non una lingua regionale, e in quanto tale viene discriminato.

Siciliano

La Sicilia, che dal 1946 gode di un proprio Statuto di Autonomia, mai applicato fino in fondo dai politici Siciliani che l’hanno governata sino ad oggi, è l’unica Regione a Statuto Speciale che non si vede riconosciuta la propria lingua. Sia l’Unesco Red Book cheEthnologue e molti altri studiosi affermano che il siciliano è una lingua distinta dall’italiano. Secondo lo Studio del Centro Ethnologue di Dallas, “il Siciliano è differente dall’Italiano standard in modo sufficiente per essere considerato una lingua separata”,”è inoltre una lingua ancora molto utilizzata e si può parlare di parlanti bilingui” in siciliano e italiano standard.

Se a livello culturale esiste ancora oggi una fiorente attività che ruota sul siciliano, a livello politico mancano ancora forti segni di rilancio della battaglia per la valorizzazione della lingua siciliana. La rinascita in questi ultimi anni di movimenti politici sicilianisti come Noi Siciliani o il Partito Siciliano d’Azione potrebbe però riportare in auge questa tematica.

Napoletano e lingue regionali meridionali

Anche il Napoletano e le lingue italo-meridionali, secondo l’Unesco sono da considerarsi lingue separate dall’italiano standard (Toscano) e non dialetti di questo. L’ attività di valorizzazione è portata avanti principalmente da associazioni culturali e gruppi musicali e teatrali. Sono presenti anche siti Internet in lingua napoletana. Anche la lingua napoletana e le altre parlate meridionali, soffrono il fatto di essere state confinate dalla cultura ufficiale italiana nel “ghetto” dei dialetti. Come il veneto, anche il napoletano può far l’altro vantare un’illustre tradizione letteraria.

Proposte operative per una politica basata sul pluralismo linguistico

Questo è il quadro generale delle principali lingue regionali parlate oggi all’interno del territorio dello Stato italiano. Come si può vedere, questo quadro è più ampio rispetto a quello delle lingue che lo Stato italiano si appresta a riconoscere mediante la legge n. 196. Questa legge è un importantissimo passo in avanti, ma non certamente è sufficiente per chi crede fino in fondo nel rispetto di tutte le identità, culture e lingue.

Come ovviare quindi a quelle discriminazioni di Stato ed evitare che siano le “maggioranze” centraliste e prettamente stataliste a decidere quali sono le lingue da valorizzare e quali invece quelle da relegare nel ghetto del “dialetto”?Come evitare che forme standard di lingue anche regionali, vengano imposte sulle varianti locali?

Ecco alcune proposte che possono essere applicate, non solo nello Stato italiano.

a) La politica di riconoscimento e valorizzazione linguistica non deve essere decisa e gestita dai governi centrali e dagli Stati, ma dalle Regioni e da altri Enti Locali che siano espressione delle Comunità locali. È così che le cosidette “minoranze” potranno uscire dal ghetto minoritario, per diventare realmente Comunità attive e riconosciute con gli stessi diritti delle “maggioranze” di Stato. Le istituzioni internazionali quindi devono prendere atto dei riconoscimenti attuati a livello Regionale e non di quelli a livello Statale.

b) Avviare ed educare a una politica plurilinguistica e multiculturale. Una società multiculturale è realizzabile solo se la valorizzazione delle varie culture autoctone e delle comunità alloctone è reciproca. E questo può accadere solo se si parte dalla valorizzazione delle culture e lingue locali e regionali, per arrivare via via anche a quelle delle comunità alloctone residenti sul territorio ed all’insegnamento delle lingue straniere per comunicare con il mondo esterno. In pratica bisogna mirare ad una forma di tutela ed educazione che potremmo definire a cipolla, partendo dalla cultura locale per espandersi gradatamente verso il mondo. La xenofobia ed il razzismo si possono combattere con successo solo con la tutela di ogni cultura. In questo modo nessuna comunità si sente esclusa o “non a casa propria”, e le forze xenofobe si vedono così private dell’alibi della difesa dell’identità autoctona. A tale riguardo, è interessante studiare ed approfondire i metodi integrativi, basati su un approccio multiculturale, che si stanno sperimentando con successo nei Paesi Bassi e che vengono portati avanti anche in Frisia di pari passo con la tutela della Lingua Frisona.

c) La politica di valorizzazione e riconoscimento delle lingue regionali a livello europeo deve essere attuata in modo estensivo, in modo da garantire la piena tutela anche a quelle lingue oggi relegate dagli Stati nel ghetto dei “dialetti”.

d) È necessario far capire a chi si occupa della salvaguardia di culture lingue e tradizioni locali, che “ogni dialetto è una lingua” e che la distinzione di valore tra lingua e dialetto è solo una finzione politica. Spesso, in Italia, molti gruppi culturali tutelano le proprie lingue regionali (accade in Emilia, Romagna, Lombardia, Liguria ) tramite lodevolissime iniziative che hanno un grande successo di pubblico. Però 160 anni di propaganda di stampo centralista giacobino al motto di “Uno stato,una nazione,una lingua” (lo stesso utilizzato in Francia), hanno fatto perdere loro una piena coscienza di appartenenza culturale a molte di queste comunità regionali che, mentre fanno una politica chiaramente multilinguistica, chiamano le loro lingue “dialetti”, autoconfinandosi così in un ghetto-museo e negandosi ulteriori sviluppi. Le parole scritte dal friulano Pier Paolo Pasolini durante il periodo della Resistenza, ci sono da esempio: “Il”dialetto” diventa lingua, quando viene scritto ed adoperato per esprimere i sentimenti più alti del cuore…per esprimere le proprie idee, il proprio sentire, i propri desideri”.

e) Quando vengono riconosciute lingue minoritarie ancora prive di una forma scritta standard, è necessario individuare per i documenti ufficiali una forma minima intellegibile da tutti i parlanti, che al tempo stesso permetta di continuare a usare e valorizzare tutte le varianti locali di quella lingua. Non bisogna ripetere gli errori della linguistica statalista, mettendosi alla ricerca delle varietà “pure” di queste lingue da imporre sulle altre. Queste famiglie di dialetti esistono come lingue proprio perché le loro diverse varianti sono mutualmente intellegibili, e tutte le varianti sono linguisticamente sullo stesso piano. Questo si può vedere benissimo analizzando la situazione del Sardo (già riconosciuto, ma ancora privo di una forma standard) o di altre lingue come l’Emiliano.

f) Da parte delle diverse associazioni culturali, dei gruppi musicali e che si occupano dell’ educazione, dei linguisti che si occupano di lingue regionali si dovrebbe costituire, grazie ai bassi costi delle tecnologie informatiche moderne (Internet e posta elettronica), un “network” che permetta di sviluppare iniziative comuni a livello internazionale e scambiarsi esperienze ed informazioni utili.

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